Danza e paesaggio. Un binomio certamente non nuovo nella sua fruizione site specific, di performance immersiva dentro contesti naturali, urbani, o di archeologia industriale. Si colloca nell’ambito di un’originale idea di mappatura organica di un territorio specifico, quello bolognese, di immaginifica “transumanza” esperienziale nella realtà, per connettere la bellezza del paesaggio con il corpo dei danzatori, il progetto Le stagioni invisibili – ciclo coreografico infinito realizzato dal coreografo Fabrizio Favale con la Compagnia Le Supplici, giunto alla sua seconda edizione (progetto speciale di Agorà con la direzione artistica di Elena Di Gioia, e promosso dalla Unione Reno Galliera, con il sostegno della Regione Emilia-Romagna, produzione Associazione culturale Liberty). Quattro performance coreografiche nell’arco di un anno, scandiscono il ciclo delle stagioni, con il pubblico itinerante invitato a un’immersione fisica, all’aperto, dentro scenari naturali, agricoli o industriali.
Il lockdown di quest’anno, dovuto alla pandemia e relative cancellazioni di ogni forma di spettacolo, ha fatto slittare in luglio la rappresentazione delle ultime due stagioni, primavera ed estate. Quest’ultima ha avuto come location una vasta zona agricola attorno all’impianto idrovoro storico di Bagnetto, nella Bassa bolognese, dove si trovano gigantesche macchine che ogni giorno, dosando le acque, evitano che tutta la pianura si tramuti in un’arcaica inospitale palude.
Tra immensi campi con coltivazioni di mais, prati, zone rigogliose e canali d’acqua, il silenzioso attraversamento nomade, con soste per visioni performative lungo il sentiero nell’ora del tramonto, era foriero di rivelazioni che solo la natura, e la sua improvvisa magia, sa regalare.
A caratterizzare il disegno performativo di questa quarta stagione è il fascino per l’epoca hippy che Favale nutre da sempre. Ritroviamo quel mondo nelle diverse sequenze coreografiche dislocate lungo il percorso a stazioni, che evocano una sparuta comunità di giovani sopravvissuta alla modernizzazione, «una popolazione che non ama mostrarsi, ma che può essere vista in lontananza in bizzarre e incomprensibili attività», spiega il coreografo. Scorgiamo i performer mimetizzati in cespugli spinosi, con luccicanti costumi azzurri a lunghe falde, con parrucche dai lunghi capelli mossi al ritmo lento di una danza popolare simile a una trance che ricorda il musical Hair, nelle posizioni yoga di un guru dentro una capanna stilizzata di soli giunchi, impegnati col potere della mente a piegare degli oggetti, viaggiatori nomadi in quel furgoncino anni ’70 con dentro una consolle musicale, che precede e accompagna gli spettatori sulla strada.
Una figura vestita di nero con campanacci indosso e rami appesi, dà inizio alla prima delle tredici tappe, soffermandosi a guardare, verso l’alto crinale della collina, la danza propiziatrice di un pastore a torso nudo. Lo stesso lo ritroveremo a cacciare delle anatre immaginarie, parlando in dialetto pugliese, nascondendosi per stanarle, aspettando, ritornando a inseguirle nel grande campo arso. Incontreremo in lontananza lungo l’argine del canale d’acqua una fila di danzatori in pose immobili di uccelli, improvvisare braccia alate, oscillazioni del busto, piegamento all’indietro e cadute a terra. Entreremo nell’edificio dell’idrovoro per un assolo al femminile tra le grandi macchine dall’impianto e, infine, saremo invitati a gruppetti a scorgere da una piccola altura una parte del fiume nascosto tra gli alberi. Appuntamento al prossimo ciclo delle stagioni per questo canto dei luoghi, con una nuova formula che ci aprirà a ulteriori scoperte e altri inediti viaggi.
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