La battuta iniziale della commedia: «Hai oltrepassato il limite», rivolta da un ragazzo a una ragazza che ha superato il cordone della stanza di un museo, è il segno – e il senso – di ciò che avverrà nel racconto, determinando il climax della commedia. Non hanno apparentemente niente in comune Adam, il timido e introverso studente di letteratura che lavora come custode in un museo, ed Evelyn, giovane artista eccentrica e sfrontata, prossima a una tesi di laurea. Ma il caso li fa incontrare. Lei ha attirato l’attenzione di lui superando il cordone intorno ad una statua esposta nel museo, con l’intenzione di deturparla con una bomboletta spray.
«Non mi piace l’arte non vera», sbotta, infastidita dalla foglia di gesso aggiunta sulle parti intime della scultura rappresentante una divinità. Dopo una rapida chiacchierata, Adam trova il coraggio di invitare a cena Evelyn. I due iniziano una relazione. Lei convince presto lui a cambiare radicalmente con una sequenza di interventi pianificati. Perdere peso, modificare radicalmente il look, esercitarsi ad atteggiamenti più disinvolti diventano per Adam le tappe di un cammino che lo avvicina alla ragazza allontanandolo però in modo irreparabile dalla coppia di amici più cari, Jenny e Philip, in procinto di sposarsi pur tra qualche titubanza e incertezza, che prima sembrano divertiti dalla metamorfosi ma ben presto si sentono disorientati di fronte a ciò che non riconoscono più come autentico. Le loro storie si intrecciano, i rapporti si complicano maledettamente tra incomprensioni, tradimenti, ripicche e rivelazioni.
Molti gli argomenti che si tessono nella rete de La forma delle cose (The Shape of Things) di Neil LaBute – drammaturgo, regista e autore cinematografico statunitense, classe 1963 -, col pretesto tematico della natura dell’arte e della responsabilità morale dell’artista. Temi come la perdita d’identità, la ricerca della perfezione, gli istinti repressi, il bisogno di approvazione, l’ossessione estetica, il dubbio delle certezze acquisite, la manipolazione dell’altro e l’inganno per il raggiungimento dei propri scopi, emergono man mano nel fitto tessuto relazionale dei quattro protagonisti della pièce. Questi, infatti, si confrontano sulla differenza tra essere e apparire, sulla superficialità dei valori contemporanei, sulla possibilità di definire arte le espressioni creative del nostro tempo e con esse i messaggi spirituali ma più spesso materiali che il genere umano si adopera a veicolare con ogni mezzo a disposizione.
A mettere in scena La forma delle cose – uno dei testi che compongono la Trilogia della bellezza, scritta tra il 2001 e il 2008 – è la regista Marta Cortellazzo Wiel per il Teatro Stabile di Torino (debutto al Teatro Gobetti), sottolineando un’attualità comportamentale dei processi manipolatori per la costruzione di una nuova esistenza e immagine di se stessi, basata esclusivamente sulla menzogna e sull’apparenza. «Un esempio vivente e parlante della nostra ossessione per la superficie delle cose, per la loro forma», è una delle frasi che rimandano al titolo della pièce.
Diventato anche un film nel 2003 (con Paul Rudd e Rachel Weisz), il testo teatrale di LaBute è una tagliente battaglia fra i sessi, una crudele analisi sullo stato delle relazioni umane, descritte, con i prevalenti toni da commedia, tra dialoghi brillanti di personaggi amorali, opportunisti e discutibili. Dopo l’ambiguo gioco tra i protagonisti, fatto di attrazione e repulsione, complicità e rivalità, infine Evelyn, alla mostra di presentazione del suo progetto di laurea, farà chiarezza del suo comportamento rivelandosi non la ragazza che abbiamo immaginiamo che sia. Lo farà staccandosi dal gruppo, e parlando a noi spettatori. Resteranno, nelle parole, le macerie di quel sadico gioco al massacro consumato.
Dentro la lucente e algida scena di pannelli specchianti e deformati, intesa come simbolo della condizione umana, riflettente e distorcente della realtà e della personalità, tra note al pianoforte e calici alzati, si agitano i sentimenti, si urlano le parole, si scompaginano i rapporti, si trasformano i personaggi – sempre in scena, tra stasi e movimento – interpretati da Beatrice Vecchione, Marcello Spinetta, Celeste Gugliandolo e Christian Di Filippo.
“La forma delle cose”, di Neil LaBute, traduzione Masolino D’Amico, regia Marta Cortellazzo Wiel, con Christian di Filippo, Celeste Gugliandolo, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione; scene e costumi Anna Varaldo, luci Alessandro Verazzi, suono Filippo Conti. Produzione Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale. Al Teatro Gobetti, fino al 19 gennaio.
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