Replica all’Argot di Roma per sole quattro sere tutte sold out La sorella migliore di Filippo Gili con la regia di Francesco Frangipane. In scena Vanessa Scalera, Daniela Marra, Michela Martini, Giovanni Anzaldo.
Ancora una volta Filippo Gili ci trascina in un gruppo di famiglia in un interno. Ancora una volta un velo che si squarcia all’improvviso, una serie di quadri disturbanti, le luci che si spengono, fine. Protagoniste, come sempre nelle drammaturgie di Gili, domande: domande che non ti faresti mai, domande senza risposta. Soprattutto, domande che potrebbero avere una risposta pubblica diversa da quella che ti daresti se fossi in assoluta solitudine. A volte neanche in quest’ultimo caso. Ancora una volta il pubblico si ritrova a camminare sospeso su quell’invisibile filo che corre tra etica, morale e pratica.
L’espediente è semplice: Luca (Anzaldo) è stato condannato per omicidio stradale. Ha già scontato quattro anni in carcere e due ai domiciliari a casa di sua sorella (Marra). La sorella maggiore, Giulia (Scalera), è un avvocato. Non fu lei a difendere il fratello al processo di primo grado, ma è lei a ricorrere in appello. Ma dopo otto lunghi anni.
La donna è stata uccisa? Sì. Luca era colpevole? Sì. Questo dovrebbe chiudere la strada. Ma non per la penna di Gili, per il quale un espediente scontato si avvita su se stesso come una scala a chiocciola, al termine della quale ti ritrovi in un mondo di sotto, che scorre parallelo a quello di sopra. Un mondo fatto di gallerie polverose, bui corridoi abbandonati da tempo immemore, scheletri nascosti. Quelle catacombe della morale dove Gili ama accompagnare i suoi spettatori. Ovviamente senza dare nessuna coperta di Linus.
11 anni di condanna sono troppi o pochi per una vita che hai distrutto, per tutto quello che la donna uccisa poteva ancora fare, per il tempo che aveva davanti? Se avessi la certezza che quella vita sarebbe terminata di lì a poco per una malattia incurabile, la situazione sarebbe diversa? Il diritto, e quindi la pena, può, deve tenerne conto? Il senso di colpa dell’omicida varia? La legge distingue addirittura vari tipi di omicidio: e la morale? (Non uccidere è uno dei comandamenti della religione giudaico-cristiana. Chissà se dio distingue i vari tipi di omicidio?). E se io fossi solo il mezzo di uno strano fato per porre anticipatamente fine alle sofferenze di un essere umano, un accidente per recidere un filo già finito?
Dove, come e in che misura divergono diritto e morale? E giustizia e morale? E la legge di dio, con i suoi sensi di colpa, da quella degli uomini? Tante domande lasciate aperte, alle quali il testo ne aggiunge altre. Se io conoscessi il referto medico e non lo usassi in primo grado per salvare mio fratello perché penso meriti una giusta punizione? E se dopo otto anni ritenessi che la pena può bastare e non servisse far scontare a mio fratello tutti gli undici anni dati dal giudice? Lasciarlo punire è amore fraterno? Qual è il confine tra amore e arroganza? Quella legge morale dentro di me di kantiana memoria e le diàtribe che questa frase ha generato, sembrano qui trovare spazio.
La sorella migliore, Prodotto da Argot Produzioni, Pierfrancesco Pisani e Isabella Borettini per Infinito Teatro e Teatro delle Briciole, beneficia di una squadra collaudata che si è incrociata più volte.
La piccolissima sala dell’Argot, dove tutto è a portata di mano, dove sei anche tu seduto a tavola con loro, sei nel salotto di quella famiglia, senti i loro respiri, vedi i muscoli del viso, gli sguardi, senti addirittura l’odore dei mandarini, offre un punto di vista privilegiato, intimo, un dono in più per lo spettatore.
La Scalera, strepitosa quando torna dove è nata, non sembra essere stata contaminata dalla recitazione televisiva, semmai ne mutua l’immediatezza, il realismo; a suo agio nelle drammaturgie di Gili, sa amplificarne lo stridio tra i piani. Anzaldo trasmette un disagio che si fa contrasto tra legge e vita; urla la sua invisibilità raccontando come nessuno si sia preoccupato del fatto che era andato a raccogliere l’arto staccato e lo abbia stretto al resto del corpo nell’illusione di fermare l’emorragia; colpevole di aver guidato sotto l’effetto di droghe, sembra quasi non essere interessato a una scappatoia morale data dal referto medico. La regia di Frangipane sa come guidare gli attori nel viaggio tra paure, rimorsi, speranze dei personaggi. Sa come far sì che diano voce al rancore che sottende la drammaturgia. Crea un montaggio con i duelli verbali, le lunghe pause e i dialoghi serrati tra i protagonisti. A volte leggermente forzata la Marra.
«La sorella migliore nasce – come spiega lo stesso Gili all’uscita della prima romana – leggendo una delle tante notizie di incidenti stradali. Il tema, per quanto tragico e tremendo, non è teatralmente interessante.
Un giorno mi sono chiesto, sul piano umano, come cambierebbe la vita di una persona, dei suoi familiari e anche dell’opinione pubblica, se la persona che ha commesso questa atrocità per indifferenza, per apatia, distrazione, leggerezza, presunzione, arroganza, avesse saputo che la persona uccisa nell’incidente stradale, uomo, donna, bambino, adulto, era comunque condannata a morire a breve per una gravissima malattia. Come cambiano gli scenari emotivi in questa situazione? Da lì ho intuito che queste complicazioni avevano una potenzialità fortemente drammaturgica e da lì nasce il testo.
La successione di elementi drammatizzanti tra questo ragazzo e due sorelle, apparentemente con un comportamento simile, accogliente e affettivo rispetto alla tragedia che lui ha provocato, evidenzia, come spesso accade nelle famiglie, un’omertà che è potenziata da questa catastrofe. La fenomenologia di una famiglia è tendenzialmente silenziosa e questa elaborazione del rapporto tra affettività e etica abbassa ancora di più la soglia della comunicazione, del contatto. Fino a quando accade qualcosa che fa esplodere tutto.
Diciamo che scrivere un testo è automatico nella misura in cui un pensiero umano va a invadere il territorio della possibile scrittura: questo è quello che è accaduto qui».
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