Dopo il debutto a Ravenna, è arrivato al Cometa Off di Roma Barbablù con Edoardo Frullini, regia di Giulia Paoletti. Il testo originale, della drammaturga inglese Hattie Naylor e tradotto in italiano da Monica Capuani, compie un percorso all’interno del tema della violenza di genere ed è stato accompagnato dalla mostra Com’eri vestita?, curata dalle associazioni Libere Sinergie e Amnesty International.
Uno sfondo nero. Un’ara sacrificale coperta da un groviglio di corde abbandonate al suolo come serpenti. Funi che scendono dal soffitto come patiboli in attesa della prossima impiccagione. Adagiato sull’ara come un Cristo deposto, il serial killer delle favole: Barbablù.
Una favola che da secoli si racconta alle bambine mentre le madri lottano per affrancarsi dal patriarcato e piangono vittime di femminicidio. È Barbablù, uno dei tanti cortocircuiti della cultura occidentale. E se c’è un pregio nella scrittura della drammaturga inglese, è proprio quello, scomodo, di esplorare la complicità delle donne nell’orrore del femminicidio. Il testo della Naylor non racconta di crocerossine, di donne bisognose di amore per mancanza di amor proprio, o altre varianti sul tema. Sbatte in faccia allo spettatore il brivido della conquista del bad boy. E tutto questo mentre il mercato dell’editoria fa soldi con il genere Young Adult, sul modello della saga After di Anna Todd (ne è stato tratto anche un film).
Niente moralismi nel testo della Naylor, semmai domande più o meno sottese. Scomode ma reali. Allora cosa non torna?
La sequenza di parole spinte in apertura di testo per definire gli organi genitali femminili (molte) e maschili (poche)? Siamo abituati a frasari peggiori. Una recitazione acerba del protagonista dovuta all’età? Edoardo Frullini padroneggia il piccolo palco del Cometa Off, è bravo nel restituirci un manipolativo inaffidabile, un perverso privo di empatia, arrogante, autoriferito, distruttivo, pieno di rabbia, che aggancia donne disposte ad accettare la sottomissione. Il rischio che nel pubblico prevalga la componente voyeuristica a discapito dell’indignazione per una piaga sociale? Il pubblico dei teatri off non è quello delle commedie leggere o che si ricorda del teatro solo a Natale. Sa andare oltre. Anzi, si aspetta di essere sollecitato.
Un’ora di spettacolo a tinte forti. Un testo che evidenzia come il femminicidio avviene dove c’è un dislivello di potere che la donna infrange, oltrepassando i confini tracciati dall’uomo. Le tre donne non in scena vengono uccise quando chiedono, quando vogliono sapere. Lo stesso peccato che commise Eva, mangiare il frutto della conoscenza, lo commette la moglie di Barbablù nella favola quando apre quell’ultima stanza per sapere cosa contenesse, per conoscere il passato del suo sposo.
E lo commettono anche le donne della drammaturga inglese: le prime due chiedono, la terza testimonia. In ogni caso hanno rotto il perimetro tracciato dall’uomo. Non sono più un mero oggetto erotico, ma sono quelle che sanno. Sono diventate un pericolo, un nemico da eliminare. E le domande obbligano Barbablù a definirsi, a rispondere alla domanda “ma tu chi sei?”. Sono la chiave che cerca di aprire una porta che deve restare chiusa.
Un testo feroce che parla di dipendenza e che di affettivo, giustamente, non ha nulla. “Dipendenza affettiva”: una delle grandi menzogne messe in piedi da un sistema patriarcale che protegge se stesso. È infatti curioso come non si parli mai di dipendenza affettiva da alcol o droghe: solo di dipendenza affettiva di una donna da un uomo.
L’esperimento drammaturgico di Hattie Naylor di guardare il femminicidio attraverso la lente della complicità delle donne, è irritantemente perspicace. Ipotizzare che ci sia una componente sadomaso nell’accettazione di certi ruoli è rischioso, ma sta qui l’originalità: nello sdoganare la parte demoniaca nascosta nella principessa della fiaba, che tutti vorremmo candida, immacolata, ingenua e indifesa.
Il confine sottile e pericoloso è poi quello di avallare una sorta di “se l’è cercata”. Ma è in questo labile solco che sta la rivendicazione di una libertà che spetta alle donne in quanto esseri umani senzienti che una cultura bimillenaria vuole inferiori, peccatrici e tentatrici.
Il monologo è scioccante, non indulge a paternalismi o vittimismi. Edoardo Frullini sa bilanciare l’uso del corpo e della voce, l’energia resta alta fino in fondo. Il pubblico ha già delle aspettative che il protagonista fa di tutto per soddisfare. La sceneggiatura è inquietante, ma resta in superficie, con poche sfumature nonostante Barbablù si racconti come torturatore e stupratore. Anche quando può permettersi di gettare la maschera, quando il suo narcisismo può vivere senza freni, quando può ostentare quella fusione di sesso e perversione che soddisfano la sua fame di potere, mentre la vittima agonizzante è lì per regalargli il massimo del piacere, mentre si manifesta in tutta la sua depravazione, il testo sembra un’opera sinfonica suonata con due note in meno.
Barbablù di Hattie Naylor non salva nessuno, come accadrebbe in Cinquanta sfumature di grigio. Dà però una visione interessante sulla sorellanza. Chiude con la figura della vecchia zia, quella che Clarissa Pinkola Estés chiamerebbe “La Que sabes”, colei che sa. Una donna anziana, madre, sorella, nonna, zia; una maga (in me ago – conduco dentro di me), una donna che ha vissuto, sofferto e trasformato dentro di sé le esperienze, imparando dai propri errori, rimarginando le proprie ferite trasformandole in medaglie. Una donna che, libera dal patriarcato, non ne è più complice e sostiene altre donne mostrando loro la strada. Forse la zia di Barbablù della Hayatt non è così evoluta, forse combatte ancora con armi maschili, forse è ancora allo stadio del combattere il nemico con le sue stesse armi, ma ha dalla sua il pregio di aver imparato a riconoscere il vampiro e a ucciderlo con la forza della luce dei riflettori.
Scrive Giulia Paoletti nelle note di regia: «In ogni atteggiamento, in ogni gesto, in ogni parola, può insinuarsi quel meccanismo di gioco-forza in cui ogni relazione deve necessariamente prevedere che ci sia un vincitore e un vinto, un predatore e una preda, un carnefice e una vittima. È proprio questo gioco-forza che emerge dalla penna di Hattie Naylor e che ritengo necessario indagare e approfondire». Si potrebbe obiettare che Giulia Paoletti perde l’occasione di andare più a fondo, ma il limite è del testo. Bello, potente, ma senza eco. Una luce accecante, buona per uccidere un vampiro, che con i mala tempora odierni è sicuramente meglio di niente.
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