19 gennaio 2024

Le Amarezze di Koltès, a Bologna il vivido affresco dei conflitti relazionali

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Al Teatri di Vita di Bologna, Andrea Adriatico porta in scena le Amarezze dello scrittore maudit Bernard-Marie Koltès, per raccontare la violenza sempre attuale dei ruoli e delle relazioni

Le amarezze, regia Andrea Adriatico

Si entra uno alla volta, al comando di una sorta di kapò che apre e chiude il portone consegnandoci, all’interno, a un altro secondino che dà l’ordine perentorio di sederci nel posto da lui assegnatoci. Nella penombra intravediamo impaurite delle persone nude costrette a indossare delle tute militaresche che le vengono lanciate. Si respira già un clima autoritario in odore di violenza. Ed è quella che, a diversi livelli, emergerà da subito in questo allestimento de Le amarezze di Bernard-Marie Koltès, ideato dal regista Andrea Adriatico, frequentatore assiduo, e primo in Italia, delle opere dello scrittore francese morto di Aids nel 1989 a soli 41 anni.

Nell’abituale clima di violenza sospesa che incombe sui suoi testi, il drammaturgo maudit dal dirompente talento, dalla vita spericolata e dalla scrittura fluviale e incandescente, crea già, con questo primo e quasi sconosciuto testo teatrale del 1970 tratto dal romanzo di Maksim Gor’kij Infanzia, un livido affresco sul tema dell’incomprensione, della contestazione, e dei conflitti relazionali.

Al centro un ragazzo, Alexis, dentro un vortice di relazioni familiari e sociali, come in un sogno oscuro e indecifrabile, lacerato dai conflitti, dagli slanci dell’esistenza e dai presagi di morte. Al Teatri di Vita di Bologna, ci troviamo improvvisamente dentro un hangar seduti in fila attorno a un grande spazio delimitato da un reticolato metallico, gabbia o prigione, a spiare un manipolo di uomini e donne agli ordini di tre carcerieri che dall’esterno del recinto, e con noi testimoni muti, impartiscono ordini, suggeriscono azioni.

La prima è quella di una coppia con l’uomo che, in una sorta di danza, trascina la donna prendendola per la gola. Azione che si ripete col ribaltamento dei ruoli. Altre, di prepotenze e soprusi, ne seguiranno, ripetute tra coppie e tra gruppi, individuando un becchino, un cadavere, un vecchio e una vecchia, un voyeur, la donna verde, il fidanzato, e i vari personaggi di nome Piotr, Igocha, Maksim, Tziganok, Varvara, scaturiti dal romanzo russo. In 16 quadri, annunciati uno alla volta dai performer a un microfono, si inscenano una serie di dinamiche coercitive di stampo famigliare con un intreccio di ruoli, di personaggi, di situazioni continuamente ribaltate, ricollocate nel rettangolo spaziale, rimodulate con salti temporali.

In Le amarezze, attingendo al primo capitolo della trilogia di Gor’kij Infanzia, il ventiduenne Koltès ricostruiva l’autobiografia dello scrittore dalla gioventù precaria e durissima, innestandola nella concezione personale dei conflitti famigliari e autoritari. Gor’kij nel suo romanzo tracciava a tinte fosche la traiettoria del declino della famiglia, i conflitti e i fallimenti, illuminata solo dalla figura della madre, vittima del dispotico potere del nonno e della bassezza morale dei fratelli. Unica vera luce nel tetro mondo del muto protagonista Alexis, la nonna, che fu per lui il un riferimento affettivo e spirituale.

Il respiro della tragedia e la forza di un testo di denuncia del sistema dei ruoli e delle relazioni come forma di violenza che caratterizzano il romanzo, aleggia fortemente nell’allestimento di Adriatico. L’andamento strutturale e di rimandi – che non segue uno sviluppo narrativo e men che meno c’è da ricercare una chiara trama -, fluisce scomposto e ricomposto tra ossessive ripetizioni e posture fisiche, corse e staticità, grida e mormorii, mentre i dialoghi e i monologhi si sovrappongono, le azioni si concatenano avendo come fulcro una grande culla, oggetto e luogo simbolo di quell’infanzia perduta.

Nello scorrere delle scene – corroborate a tratti dalla barocca Sarabanda di Bach, dalla canzone del rapper Coez, dalle atmosfere sonore di Charlie Ryan, e dalle note di Atlantide di Francesco De Gregori -, la rappresentazione di questo artaudiano “teatro delle crudeltà”, s’incunea prepotentemente nel nostro presente con la canzone War di Bob Marley che dà inizio alla sequenza finale. Nella semioscurità illuminata da fari impazziti, arriva un mulinare di droni che s’alzano, si impennano e si impigliano tra la rete; e gli umani, atterriti, spogliarsi e correre senza via d’uscita sovrastati dal rumore di elicotteri, di spari, di sirene. Bruscamente, a noi viene urlato di uscire fuori.

L’odore della guerra, dei conflitti e dell’oppressione in quella prigione a cielo aperto, ci accompagna anche fuori dall’hangar. Koltès nella presentazione della sua opera e del suo personaggio Alexis, così concludeva il testo: «L’hanno aggredito con la violenza e la rapidità della grandine e del vento, senza che un tratto del suo volto abbia avuto un fremito. Stracciato, bruciato, in piedi finalmente, ha fermato gli elementi come si soffia su una candela. E la sua voce ha trafitto il silenzio».

Compatto e corale l’ensemble attoriale prevalentemente giovanile: Anas Arqawi, Michele Balducci, Innocenzo Capriuoli, Rita Castaldo, Ludovico Cinalli, Nicolò Collivignarelli, Alessio Genchi, Giorgio Ronco, Myriam Sokoloff, con i due più maturi Olga Durano e Marco Cavicchioli.

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