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Le difficoltà del teatro in ripartenza: intervista a Andrea Rurale
Teatro
Cosa ne sarà di teatri e musei nelle prossime fasi post covid? Da una ricerca nell’ambito dello SDA Bocconi Arts and Culture Knowledge Centre è emerso che la ripresa dei teatri sarà più lenta di quella dei musei. Ne abbiamo parlato con il professore e Presidente FAI Lombardia Andrea Rurale, coordinatore di questo studio, tra ripartenze e cultural policy.
In cosa consiste la ricerca: quante istituzioni sono parte della ricerca e in quale area geografica?
«In pieno lockdown, in un momento nel quale si sapeva che la normalità sarebbe stata compromessa, a noi interessava capire la percezione delle perdite da parte degli operatori, se fosse stato possibile ripartire con un distanziamento sociale, ripensando e riprogettando quindi una nuova normalità. La ricerca, condotta insieme a Piergiacomo Mion, Rebecca Roj, Gianmarco Modena e Valeria Bevilacqua, ha avuto un dataset di 124 questionari inviati a istituzioni rappresentanti le tipologie oggetto di indagini (fondazioni lirico sinfoniche, teatri di tradizione nell’ambito delle arti performative e musei civici o regionali e nazionali nel caso dei musei), di questi hanno risposto correttamente 74 e 90 quelli che hanno risposto a tutto o a una parte, di cui il 53,9% musei e 46,1% teatri, da tutto il territorio italiano. Ciò che è emerso è che i teatri avrebbero avuto maggiori difficoltà, perché a differenza dei musei che dispongono tipicamente di una collezione da mostrare, il teatro ospita rappresentazioni e quindi ripartire significa non solo aprire le porte all’accesso del pubblico, ma anche organizzare e allestire l’offerta culturale. Le modifiche strutturali dei musei comportano la messa in sicurezza di un percorso che in molti casi è già stato previsto e studiato, con opportune limitazioni di afflusso mentre questo è più difficile per i teatri: l’esperienza teatrale si configura come collettiva, che si vive necessariamente in un contesto sociale, a differenza del museo dove l’opera esposta può anche essere apprezzata e vista in contesti solitari o poco affollati».
Perché confrontare teatro e musei?
«Sebbene le differenze sono talmente ampie che li rendono non comparabili tra loro, il tema è che quando si parla di sostegno pubblico o privato alla cultura, questi due ambiti sono sempre accomunati, visto che entrambi offrono un prodotto culturale, edonistico, ad alto contenuto esperienziale. I sue settori hanno però forme di sostentamento e finanziamento differenti: basti pensare al personale che quando è a carico di un ministero (i musei nazionali o quelli civici) non è stato necessario ricorrere ad ammortizzatori sociali e i dipendenti, sebbene impossibilitati a lavorare, non hanno avuto impatti diretti. Nei teatri invece (pressoché tutte fondazioni quelli parte della ricerca), il costo del personale pesa direttamente sul loro bilancio e le ricadute sono state pesanti: il ricorso al FIS (Fondo integrativo salariale) è stato adottato da quasi tutti. Oltre al ricorso agli ammortizzatori sociali i teatri hanno anche risolto o dovranno risolvere dei contratti per cause di forza maggiore. La ricerca ha solo messo in luce e confermato che senza un apporto di denaro pubblico il settore culturale non può sopravvivere. A questo punto si è cercato di indagare cosa stesse succedendo e capire quali potessero essere le ripartenze».
Il periodo preso in esame è un periodo molto limitato, di appena 22 giorni, dal 20 aprile al 12 maggio. Perché la scelta di questo periodo?
«A noi interessava un’analisi in una fase in cui si poteva fotografare qual era la ricaduta immediata della chiusura. La prima evidenza è stata la crisi economica: il 76,5% dei teatri ha fatto ricorso agli ammortizzatori sociali, contro il 48,7% dei musei. La seconda è stata l’attività online: il 77% delle istituzioni del campione hanno creato storytelling e il 65% contenuti per il giovane pubblico, attività completamente gratuite. La gratuità rischia però di essere controproducente: quando si tornerà nella normalità, perché pagare per qualcosa che si è potuto avere gratuitamente? Rischia dunque di essere un deprezzamento del valore culturale: se il panettiere è chiuso, il pane non lo compriamo, ma se sta chiuso un teatro, questo deve far sentire comunque la sua voce, come parte di una comunità, offrendo gratuitamente tutto».
Il 15 giugno hanno riaperto i teatri: molte le iniziative che hanno riportato il pubblico in sala. Quali possono essere le prospettive di ripresa per musei e teatri?
«Posto che stiamo tutti navigando a vista, quando abbiamo condotto la ricerca, il 15 giugno era una data che poteva ancora slittare. Oggi che i teatri sono in parte aperti con grosse limitazioni, si vede da subito che l’esperienza teatrale non potrà più essere come prima, perché il distanziamento sociale rende difficile attuare uno degli obiettivi del teatro che è quello di ritrovarsi. Il museo, che ha potuto riaprire le porte il 18 maggio, è invece ora una palestra dove si studia come poter cambiare l’esperienza di visita. Entrambi i settori nel periodo di chiusura hanno fatto ricorso ad alternative online: in molti casi con grande successo. Ma in nessun caso internet potrà mai sostituire l’esperienza dal vivo: le esperienze digitali non suppliscono quella sociale».
Pensa che serva una strategia culturale comune o le strade debbono essere separate, visti anche le diverse modalità di finanziamenti pubblico del Mibact?
«Il punto di partenza è comune: la cultural policy. Il bello, l’arte in senso generale e la sua esposizione hanno una ricaduta positiva per l’individuo, per la sua collettività e per la società in generale. Per questo va sostenuta in ogni sua forma. Il modello del privato che interviene e supplisce allo Stato funziona in contesti ricchi, il modello degli Stati Uniti dove i privati hanno fortissime agevolazioni fiscali quando donano a teatri e musei funziona solo in contesti di abbondanza di risorse: è sotto gli occhi di tutti il settore in ginocchio di questi mesi dove teatri e musei chiudono e licenziano perché troppo dipendenti dal finanziamento privato, ora in forte flessione. Diventa quindi una necessità che il pubblico sia il principale contribuente della produzione artistica. E in Italia siamo tutto sommato estremamente fortunati. Musei e teatri sono due settori separati, ma la necessità di un intervento pubblico forte nel loro supporto è comune. Si è detto spesso in questi mesi che raccogliere fondi per arte e cultura sia secondario rispetto a invece farlo per la situazione sanitaria emergenziale. È sicuramente un pensiero venuto a molti con una base comprensibile e a tratti condivisibile. Ma guai a pensare che in situazioni di scarsità di risorse la produzione artistica e culturale debba essere messa in fondo alle priorità sperando che la cultura vivesse solo di finanziamenti privati, perché vorrebbe dire ucciderla».
Ma una soluzione può essere la creazione di un piano a più lungo termine di welfare culturale?
«Un progetto di welfare culturale prevede che la produzione della cultura diventi un vero e proprio servizio che sia riconosciuto essenziale e funzionale allo sviluppo dell’individuo nel corso della sua vita. Per fare questo serve un chiaro riconoscimento del sostegno pubblico a queste attività, nel momento in cui vengono drenate delle risorse all’interno del sistema. Parlare di welfare culturale è sicuramente interessante, rappresenta una prospettiva ideale a mio avviso, ma in questo momento, dove le risorse sono scarse e limitate, serve favorire l’intervento del privato in un contesto dove il pubblico però non viene deresponsabilizzato rispetto al suo ruolo di principale sostenitore del sistema dell’arte e della cultura del nostro Paese».
Come continuerà la ricerca nei prossimi mesi?
«Stiamo cercando di studiare i diversi modelli di revenue, compararli soprattutto in relazione alla loro risposta al Covid. Stiamo approfondendo il tema in diversi paesi stranieri in modo da correlare i modelli a diverse reazioni all’emergenza sanitaria».