Sono le parole, quelle dei racconti dell’avventurosa ed esotica vita di Otello, che seducono Desdemona. E sono le parole, quelle del racconto architettato da Jago per ingannarlo, che porteranno a morte, seducendo con la loro menzognera apparenza Otello. Più dei fatti conta come sempre la loro apparenza. Come a teatro. E teatro è quello che inscena “l’onesto” Jago, contrapponendo alla sincerità dei sentimenti del Moro la propria doppiezza. La vicenda dell’Otello di Shakespeare, per sé lineare, risulta ardua nel trovare le giuste atmosfere qualora si ambisca, come nell’allestimento di Kriszta Székely, scavalcare il tempo della sua ambientazione e portarla nel presente.
Sembra esserci una continuità nell’indagine sul potere – tematica presente nelle opere del Bardo -, che la regista ungherese ha avviato da tempo allestendo, per il Katona József Színház e il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, lo scorso anno un Riccardo III con attori italiani, e ora un Otello con il cast della sua compagnia (al Teatro Carignano). Ad accomunare, nella sua lettura, il sanguinario duca di Glouchester Riccardo III e il perfido Jago, due personaggi senza scrupoli né morale, che ambiscono, in modo diverso, al potere, è il loro essere degli showmen, uomini di spettacolo, affabulatori, attori capaci di sedurre con le parole e col corpo tutti quelli che li circondano. D’altronde la celebre battuta “Io non sono quel che sono”, con la quale Jago, che ordisce tutta la trama, si presenta subito, può considerarsi l’essenza della recitazione e degli attori di ogni tempo.
Ma se nel Riccardo III la modernizzazione che ne risultava facendolo muovere tra reali set televisivi, manipolazione dei media e fake news, aveva una ragion d’essere pienamente centrata, nell’Otello non c’è quella forte caratterizzazione con un personaggio che lo collochi nell’attualità dichiarata dalla regista, ossia nel «Meccanismo socialmente dominante delle fake news». Se quelle del subdolo Jago, autentica macchina dell’odio e della maldicenza, sono le parole e le notizie false ordite tramando la “macchina del fango” per la sua vendetta contro Otello, non vediamo, nell’allestimento, un riscontro così pertinente e manifesto col nostro tempo.
Non basta un impianto figurativo (di Nelli Pallós) simile a un set da discoteca (?) con luci e tende di plexiglass trasparenti da dove si entra e si esce, si accenna a balli, e con una Dj alla consolle, Flóra Lili Matisz, che crea le musiche e i suoni live, oltre che cantare. Jago, istrione spudorato che, a tratti, usa anche una maschera nera per avvalorare la sua recita – «Un illusionista», lo descrive la regista -, cerca l’applauso del pubblico in platea, sgambetta e si muove consapevole del suo fascino ammaliante.
Citando ancora Riccardo III, lì l’attore (Paolo Pierobon) aveva più presa sugli spettatori, il quale ammiccando cercava di sedurli instaurando con essi la confidenza necessaria per renderli complici. Qui, invece, Jago, sempre febbrile e mellifluo, sembra piuttosto artefatto. E neanche l’accentuare, nel linguaggio e nella mimica, allusioni sessuali e testosteronici, lo rendono a noi simpatico e dalla sua parte. Tutto si consuma velocemente nella drammaturgia operata da Ármin Szabó-Sezékely, e si perde molto delle parole importanti del testo originale (traduzione con i soprattitoli dall’ungherese in italiano). Buona, nel complesso, la resa della compagnia: Lehel Kovács (Jago), Barna Bányai (Otello), Vivien Rujder (Desdemona), Alexandra Borbély (Emilia), Dávid Vizi (Cassio), Ferenc Elek (Lodovico), Péter Takátsy (Brabantio), Vilmos Vajdai (Montano), Benjámin Lengyel (Rodrigo) e Kata Kanyó (Bianca).
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