Testo imponente, spina dorsale dell’Occidente, l’Orestea di Eschilo segna il passaggio culturale dal matriarcato al diritto patriarcale, all’idea di Stato, di diritto. È un oceano senza fine la dimensione tragica che contiene raccontando, nella trilogia, il matricidio col quale Oreste, con la complicità della sorella Elettra, colpendo Clitennestra e il suo amante Egisto, vendica la morte del padre Agamennone – ucciso dalla moglie insieme alla sua amante-schiava Cassandra –, a sua volta colpevole di aver sacrificato agli dei la figlia Ifigenia; fino a quell’ordine apollineo che Oreste, dopo essere fuggito perseguitato dalle Erinni, vorrebbe instaurare chiedendo ad Atena che il suo tragico operato sia giudicato da un tribunale. Eschilo dà alle figure femminili spessore e eloquenza irresistibili, laddove il suo Agamennone è tronfio e ambiguo, e il suo Oreste indeciso e angosciato. Ed è tutta al femminile l’Orestea concepita da Maria Federica Maestri e Francesco Pititto di Lenz Fondazione. Sono donne che, in un mondo di violente sopraffazioni maschili, incarnano assassini e vittime, orrori, passioni e paure. In questo paesaggio codificato dal mito, i due autori hanno inscritto i loro segni nel lungo percorso esplorativo della saga famigliare degli Atridi, oggi giunta a compimento e ricapitolata in tre episodi: Nidi, Latte e Pupilla – rispettivamente da Agamennone, Coefore e Eumenidi – ora delineati in un unicum scenico allestito in prima nazionale nell’ambito del Festival Natura Dèi Teatri, a Parma.
In questa rilettura delle origini del tragico, è esemplare la sintetica e poetica riscrittura contemporanea di Pititto e Maestri e il loro lavoro registico e di messa in scena con le cinque interpreti femminili, attrici storiche e “attrici sensibili” di Lenz – Barbara Voghera, Sandra Soncini, Carlotta Spaggiari, Lara Bonvini, Valentina Barbarini, Monica Barone -, che sono “eco di un altrove del pensiero – li definisce Pititto -, postura ipercodificata e naturale nello stesso tempo, gestualità funzionale al senso e al contempo sospesa e poetica”. In precedenza rappresentati con una loro compiutezza teatrale, i primi due episodi di questa nuova Orestea sono riproposti in una ulteriore scarnificazione scenica dove ogni elemento viene distillato. Qui non servono più le immagini virtuali – le cosiddette “imagoturgie”, da sempre elemento drammaturgico dell’atto performativo di Lenz – giacché tutto è ricondotto all’interno delle azioni e del corpo delle attrici, che incarnano Andromaca, Ifigenia, Oreste, Elettra, e tutte insieme il Coro. Tutta la vicenda famigliare, ad esempio, è compresa dentro un secchio d’acqua – per lavare ciò che è sordido -, poi di fango da dove estrarre via via oggetti infantili – un cavalluccio, un pupazzo, una cordicella -, espressioni di figure e significati che Cassandra evoca togliendosi una benda dalla testa e assumendo la risonanza di Ifigenia. È sintesi di eventi, di violenze e stupri la sequenza in cui la Soncini, dando corpo ad Agamennone, simula un atto sessuale su Clitennestra mostrando un fallo fra le sue gambe.
Nelle stratificazioni di segni c’è un letto che funge da trono e anche da nido dove Clitennestra e Cassandra urlanti coveranno le loro uova, l’una partorendo l’altra. E ancora segni neri a terra, schizzi e scarabocchi, poi sul volto, a voler lasciare tracce di presenze, di futuri lutti, di parole sottaciute, di profezie che altri decifreranno. Cassandra assumerà movimenti d’uccello, poi di lupo camminando a quattro zampe; Clitennestra, sulla musica del Lago dei cigni di Čiajkovskij, sarà corpo tellurico, squassato, impazzito, danzando a terra sulle note della Morte del cigno, cifra sonora per deflagrare il momento topico dell’assassinio. Di grande forza visiva e fisica, è anche la sequenza dove sopra un tavolo domestico – luogo di nutrimento di vita e di morte – sarà composto e versato del latte artificiale che, manipolato, da bianco diventerà nero, sporcando volti e mani e lo spazio intorno. L’installazione scenica agìta s’ispira alla Todesfuge del poeta tedesco Paul Celan, la più importante poesia scritta sull’Olocausto (“Latte nero del mattino ti beviamo di notte, ti beviamo a mezzogiorno, la morte è un maestro tedesco…, dicono alcuni versi), e ai vortici liquidi dell’artista inglese Anish Kapoor. Sotto il tavolo, una culla: la tana in cui Oreste si nasconderà per sfuggire alla furia delle Erinni. E qui si giunge all’inedito terzo atto, Pupilla, tratto dalle Eumenidi dove, accanto ad Oreste e al Coro, troviamo Apollo, Atena e l’ombra di Clitennestra che chiama i morti: “Svegliatevi voi del mondo di sotto… Io, lasciata sola mi sento chiamare, dai morti: Assassina! Là, nell’ombra, io vivo nella vergogna. Io vivo schiacciata dalla colpa, io che ho avuto da un figlio quel che ho avuto. E non c’è dio, che si ricordi di me, fatta a pezzi, uccisa, da una mano matricida”. L’installazione scenica di bianchi tulle trasparenti tali da creare un ambiente ionizzato, rarefatto, nei precedenti quadri delimitavano stanze e corridoi di un habitat domestico dove tutto era in evidenza, esposto allo sguardo dal quale non ci si poteva sottrarre, né nascondere al male, alla malattia, alla stupidità degli esseri umani.
Trasformato, quel perimetro scenico con colonnine di neon ai lati diventa luogo della memoria – sala d’attesa di un luogo pubblico, ambulatorio, aula giudiziaria, anagrafe –. In questo spazio anonimo, sanificato dalle violenze emotive che li hanno tragicamente trasfigurati, i personaggi sperano di rettificare la propria identità e di riappropriarsi di un nuovo destino davanti alle Erinni che appaiono vestite di eleganti abiti rossi. Con una grafica di scrittura infantile sul tulle, Oreste scriverà parole che richiamano i misfatti, mentre affiorano le sue ossessioni, i suoi fantasmi e le paure, invocando Apollo: “Ho le mani sporche di sangue. Si sono lavate toccando voi, esseri umani. Adesso sono qui, Dio. E qui mi aspetto la tua giustizia! Ho imparato quando tacere, ho imparato quando parlare. Adesso Dio mi dice: fatti ascoltare! Sulla mia mano non c’è più sangue… Aiutami, aiutami! Ah! Vieni da me, liberami”. E in un gioco di numeri proiettati a terra Atena, dopo la votazione, sancirà la sorte di Oreste verso un’eterna salvifica tristezza.
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