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May B continua a stupire: l’omaggio del Teatro di Parma a Maguy Marin
Teatro
È un distillato dello spirito di Samuel Beckett, trasposto in un teatro-danza che non conosce l’usura del tempo. Ancora oggi, dopo più di 40 anni, “May B”, spettacolo cult del 1981, che ha girato il mondo, continua a stupire. E di tanto in tanto ritorna sul palcoscenico, a conferma, ancora una volta, di quanto attuale e intramontabile sia la parabola di Maguy Marin sulla condizione umana presa a prestito da Beckett, immortalando una comunità in uno stato di immobilità e di erranza senza fine, spiata dalla coreografa nei loro movimenti involontari, e da lei tradotti in altri movimenti che cercano il significato di loro stessi. A lei, eclettica e audace artista settantaduenne, è dedicato il progetto “Maguy Marin – La Passione dei Possibili” ideato dal Reggio Parma Festival, in programma da maggio a dicembre 2023 al Teatro Regio e Teatro Due di Parma, al Teatro Municipale Valli, Teatro Ariosto e Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia, con un palinsesto di spettacoli cult e iniziative, tra cui una nuova creazione prevista a novembre.
A inaugurare l’omaggio alla coreografa francese è stato “May B” accolto con successo al Teatro Regio di Parma. Rivederlo a distanza di anni, immutato nella struttura e forse con qualche cambiamento, rivela nuovi dettagli, ulteriori scoperte, rinnovate emozioni. Racconta un mondo chiuso, soffocante, che condensa quel senso di obbligazione a vivere insieme, quel “dolore di esistere” tipico del teatro di Beckett, e motore di emozioni riconoscibili in quei gesti ordinari, comuni, intimi e sociali, in una ripetizione che fa risuonare l’infanzia e la vecchiaia.
Dopo le note, al buio, di “Der Leiermann” di Schubert, dieci goffe figure in bianchi pigiami e camicie da notte, strette fra loro avanzano sbucando da una parete nera che rivelerà delle porte. L’immobilità iniziale viene smossa dall’ordine perentorio di un fischietto sibilato nel buio. Da lì in avanti questo consorzio umano di “larve” strascicanti, inizierà a spostarsi faticosamente – come i ciechi della tela di Pieter Bruegel o come certi personaggi-manichini del “teatro della morte” di Tadeusz Kantor –, poi allegramente, obbedendo prima al ritmo di una bandistica musica carnevalesca, poi, sullo sfondo di altre musiche, al loro stesso ritmo interno.
Sono figure grottesche, con i volti alterati dal pesante trucco di argilla e di polvere che s’alza mentre danzano. Piccoli movimenti, a scatti, accelerati, rallentati, esplosivi, mentre si guardano, osservano fuori, ridono, si rabbuiano, si consolano. Si creano coppie, tenere aggressioni di gruppo, azioni meccaniche e prive di desideri, tentativi di risate per resistere alla disperazione. Si provocano a vicenda, pronti a tentare goffamente, di divertirsi, giocare, stimolarsi eroticamente. Si spostano all’unisono in più direzioni, mugolano suoni, grugniti e sospiri verso invisibili creature. Quando scompariranno da una delle enigmatiche porte per riapparire in abiti vintage con in mano una valigia, un fardello sulle spalle, un frutto da mangiare, riconosceremo, tra gli altri, Lucky e Pozzo, Clov e Hamm, gli emblematici personaggi di “Aspettando Godot” e di “Finale di partita”.
In un loop crescente che ripete la struggente canzone “Jesus’ Blood Never Failed Me Yet” (che Gavin Bryars registrò dalla voce di un barbone), torna la sfilata a piccoli passi, la lenta marcia con giri e cadute e rialzate, nel tentativo reiterato di abbandonare quel luogo – ricovero di anziani o manicomio, buco nero della storia, voragine senza tempo – dal quale provengono. Vano sarà il tentativo di portare un po’ di luce e gioia con una torta e candeline. Troncata bruscamente la festa, il gruppo riprende il cammino, scandito da gesti ribaditi e con la testa rivolta verso l’alto, per proseguire un viaggio verso non si sa dove. Forse è fuga o ricerca di un irraggiungibile Godot. “È finita, sta per finire, forse sta finendo” dirà l’uomo dall’aria smarrita, rimasto solo con la valigia in mano paralizzato nel vuoto e illuminato da una luce che lentamente lo isola per poi spegnersi fino al buio del sipario.
Un lavoro superbo e sconvolgente “May B”, di pregnanza espressiva ed emotiva, di sapienza drammaturgica, in cui Marin fa emergere con forza i temi dell’attesa vana, dello smarrimento, della follia, della solitudine, della violenza e dell’emarginazione. Una potente allegoria della vita.