All’interno di una scenografia incorniciata da una Composizione di Mondrian, dalle forme squadrate, geometriche, ma in continuo divenire, firmata da Alessandro Chiti, Kaspar Capparoni debutta alla regia con un classico di Patroni Griffi, Metti, una sera a cena. E lo fa su invito del direttore artistico Silvano Spada, in occasione del prossimo ventennale della scomparsa del grande drammaturgo partenopeo. Affrontando un testo apparentemente scontato che infastidisce, ora come allora, mentre parla di amore, tradimento, ipocrisia, omosessualità. Perché se è vero che la borghesia non esiste quasi più, se la lotta di classe è ormai un evanescente scontro sui social della durata effimera di pochi giorni, è anche vero che il moralismo, a differenza delle ideologie, non è morto. E, attorno a quel tavolo, oggi come nei primi anni Sessanta, ci siamo noi, con le nostre ipocrisie, il nostro perbenismo di facciata, noi che, come recita Max, «La nostra salvezza sta nel vizio». In scena Kaspar Capparoni (aiutato alla regia da Orazio Rotolo Schifone), Laura Lattuada, Carlo Caprioli, Clara Galante ed Edoardo Purgatori.
Capparoni fa rivivere il testo del suo maestro e ridà voce alle possibilità d’essere dei personaggi teatrali resi immortali dalla versione cinematografica. Lascia che le azioni si svolgano in un presente continuo, che i personaggi siano sempre sul palco anche quando non vi partecipano, affidando il cambio di scena alle luci di Umberto Fiore che le utilizza come un montaggio cinematografico. Equilibrati gli interpreti, tra i quali spicca Edoardo Purgatori, la sua fisicità, l’interpretazione, i movimenti nello spazio, la mimica e la gestualità.
Dello spettacolo in scena all’OffOff Theatre di via Giulia, ne parliamo con lo stesso Kaspar Capparoni, che ha scelto per sé lo stesso ruolo che gli diede Patroni Griffi. «In realtà non volevo neanche recitare – sottolinea Capparoni – ma occuparmi solo della regia. Hanno insistito e a quel punto ho scelto il ruolo che già conoscevo».
Il testo è più breve…
«L’ho fatto in chiave diversa rispetto alla versione di Peppino, ma alla fine il testo è quello. Ho lavorato all’interno della drammaturgia cercando di snellirlo. Già nel 2003 Patroni Griffi voleva ridurlo poi, seguendo il secondo consiglio, secondo me non giusto, di Aldo Terlizzi, ha mantenuto il testo integrale.
Per lui sarebbe stato più semplice, mentre io ho dovuto fare un lavoro pazzesco: non essendo autore né scrittore, ho cercato di fare attenzione il più possibile a non danneggiare l’opera di Patrone Griffi. Alla fine ho trovato il compromesso che vedete in scena all’OffOff Theatre».
Mi ero chiesta se lo avesse fatto perché il pubblico non è più abituato a pièce troppo lunghe o perché non ama più testi troppo speculativi.
«Spesso sorrido quando sento dire “questo testo non funziona più”. I testi funzionano sempre. È la messa in scena che deve essere adeguata al tempo, alle esigenze proprie e del cast. Altrimenti non si potrebbe più fare nulla, neanche Shakespeare o Pirandello. È tutto fermo al passato. Il mondo si evolve, va avanti, ma è la messa in scena a rendere attuale una drammaturgia. L’opera d’arte non invecchia mai. Altrimenti a cosa servirebbe un regista? Basterebbe prendere un testo e farlo. Bisogna lavorarci dall’interno, ottimizzarlo, ed è quello che ho cercato di fare: di togliere quelle cose che non erano essenziali alla messa in scena».
Il grande pubblico la conosce per i suoi ruoli televisivi, dal Commissario Rex a Elisa di Rivombrosa, o cinematografici. Ma lei nasce in teatro e vi ha lavorato molti anni, soprattutto con Patroni Griffi. Ma mancava dal palcoscenico da molto tempo…
«Mi ero un po’ allontanato dal teatro perché per me il modo di gestire i teatri di oggi non è far teatro. Il teatro è quello che va in tournée e, per questo, ci vogliono i teatri di giro: quello che accadeva fino a trent’anni fa. Ma lo hanno distrutto con delle politiche assurde: con i teatri stabili hanno distrutto il teatro privato. È uno scempio».
Ma se per protesta ve ne andate via tutti, chi ci lasciate a teatro?
«Alle persone non interessa, pensano solo al loro tornaconto, seguono discorsi politici e clientelistici e non pensano invece alla vitalità del teatro. E siccome non amo trovarmi in certe situazioni, perché ho un carattere spigoloso, ho preferito allontanarmi. Mi trovo spesso a parlare con persone della politica che si dovrebbero occupare dello spettacolo e della cultura e non ne sanno nulla. Il fatto stesso che non sappiano che la cultura del teatro italiano è di giro, e lo fanno diventare un teatro stabile, fa capire quanto siano ignoranti in campo teatrale e quanto non conoscano il mestiere del teatro».
E De Fusco appena nominato direttore del teatro di Roma? Che ne pensa?
«Non entro in queste dinamiche perché è solo politica. Niente a che vedere col mondo della cultura e dello spettacolo. Una volta sapevo che per diventare direttori di un teatro, uno dovesse essere un’artista. Ormai in questi posti ci stanno più burocrati che persone del mondo del teatro. Quindi non mi interessa. Mi dispiace assistere a quanto accade, capisco che ci sono situazioni che vanno al di là del mondo dello spettacolo, ma che devo fare? Bisogna cambiare questo Paese, ma mi sembra profondamente complicato. E lo dico senza polemica: non serve. Vedo molti colleghi che sono prostrati e questo mi fa ancora allontanare ancora di più».
Ha visto lungo Patroni Griffi quando in Metti, una sera a cena fa entrare l’anarchico Rick nel giro degli amici attorno al tavolo imborghesendolo?
«Sì, ha visto lungo e ha raccontato anche come i più grandi ribelli, alla fine, vengono domati. Ma è sempre stato così perché, alla fine, è sempre una questione politica. È il genitore che dice al figlio “mi raccomando non farti notare, non fare questo, stai attento”; invece dovrebbe essere il contrario: vai tesoro, vai verso il mondo, fatti notare, esprimi le tue idee. Quando questa è la realtà che ci circonda, cosa possiamo aspettarci?».
Quindi sono irrimediabilmente lontani i tempi di quando Patroni Griffi era direttore artistico dell’Eliseo?
«Peppino è sempre stato un uomo lontano anni luce da tutto questo. Per lui contava solo il teatro e formare giovani. Quest’operazione di riportare in scena Metti una sera a cena è un omaggio a Peppino. Quando Silvano Spada mi ha offerto questa opportunità ho rifiutato. In modo molto umile mi sono tirato indietro, anche per paura di toccare l’opera di Peppino. L’ho fatto con un grande cuore come omaggio al mio maestro e a quello che mi ha insegnato nei trent’anni durante i quali ho lavorato con lui. Ho cercato di far uscire l’essenza di quello che era Peppino, di quello che ha dato al teatro, al mondo della cultura e soprattutto ai giovani che entravano in questo universo.
Patroni Griffi è stato uno dei pochi che ha portato al teatro tanti ragazzi, nuovi attori, registi; un uomo che si è prodigato per questo ambiente e mi sembrava doveroso, a vent’anni dalla sua scomparsa, rendergli omaggio. E spero lo facciano anche tanti altri attori e registi.
Ci sono testi bellissimi testi di patroni Griffi che aspettano solo qualche regista che li porti in scena. Poi Peppino non è mai stato un oltranzista, nel senso che non avrebbe avuto problemi a veder mettere le mani a un suo testo come abbiamo fatto noi. Non era uno che rimaneva scandalizzato anzi, era felice se le persone usavano i suoi scritti. Lui diceva che l’opera, una volta che è nata, prende la sua strada, è di tutti e ognuno ne fa ciò che meglio crede. Per questo ho deciso e accettato l’invito di Silvano Spada».
In scena c’è anche il figlio di Vittorio Caprioli, che recitò nella versione cinematografica.
«Mi era stato chiesto se volessi fare questa operazione anche con altre persone che avevano lavorato con padroni Griffi: mi sarebbe piaciuto, ma non è facile perché alcuni sono impegnati in altri lavori, altri hanno un’età che non è più la stessa. Poi mi è venuto in mente Carlo e mi sono ricordato di quando Vittorio Caprioli, al quale ero molto legato, mi disse: “Mi raccomando Capparò, stagli dietro a Carletto”. Io glielo promisi. Vittorio vedeva una somiglianza tra noi due e mi considerava quasi un figlio. Per questo sono contento di essere tornato a lavorare con Carlo, col quale facemmo un Giulietta e Romeo».
Al di là dell’età avrebbe scelto per sé il ruolo di Rick?
«No, impossibile. Non avrei fatto nessun altro ruolo. Non avrei proprio voluto fare questo lavoro dal punto di vista attoriale. Avrei voluto occuparmi solo della regia, perché avevo già un’idea di come volevo farla. Questa commedia è sempre sorprendente e ogni volta rimango colpito dalla forza che ha, nonostante gli anni e nonostante io conosca già il testo. Quello che mi dispiace è che non c’è più Patroni Griffi, perché sarebbe stato felice di vederla andare in scena ancora una volta».
Rivederla in teatro immagino sia stata una gioia per il pubblico che la segue anche in televisione.
«Questa è sempre stata una diatriba col mio maestro, perché era sì contento che lavorassi in televisione, ma nelle interviste diceva: “A Capparoni mo’ se l’ha accattato la televisione”. E lo diceva sempre con una certa tristezza. Ma prima di morire mi disse, “Ricordati che il teatro è la tua casa”. E io gli risposi: Peppì, ma a volte le case ti vengono a dare lo sfratto».
Ha in programma di tornare sul set?
«Sì, con un action movie di quelli veri, non con queste storie fittizie che arrivano dall’estero, piene di tecnologia. Voglio tornare al vecchio cinema d’azione con una storia all’interno. Quando vai a vedere questi action movie rimani sicuramente colpito per la potenza delle scene, ma ti chiedi che stai vedendo, qual è la storia. È un film che avevo scritto tempo fa e, come accade sempre nel mondo del cinema, faccio i dovuti scongiuri ma sembra che stia andando in porto».
Oliver Stone giorni fa ha detto che non c’è più il vero film d’azione, che sembrano tutti videogiochi.
«Sì, hanno tolto la magia: vai a vedere tante playstation. Mi piace ancora quel cinema che, quando lo vedi, sai che stai vedendo qualcosa di differente. È un progetto ambizioso ma nella mia vita non ho mai fatto cose facili».
Vuol dire che ha il carattere, la forza e la tempra per fare cose complesse.
«Altrimenti non avrei neanche scelto di fare come prima regia Metti, una sera a cena. In molti mi hanno detto “ma tu sei pazzo”. Sarò pazzo ma questo sono.
E poi spero di trovare qualche estimatore che abbia il desiderio di continuare a far vivere questa commedia, perché secondo me è un peccato che termini qui. Sarebbe un peccato se un’operazione come questa non andasse in giro per i teatri di tutta Italia».
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