Fedra, regia di Federico Tiezzi © Luca Manfrini
Quella di Fedra, cupa vicenda di fatalità e sciagura, è una storia dalle innumerevoli letture, che attraversa i secoli, da Euripide a Seneca, fino alla seicentesca tragedia di Racine. Un nodo fatale lega lei, volubile creatura mitologica della stirpe di Minosse e di Pasifae, al funereo destino familiare segnato dalla dismisura anche nel desiderio.
Vittima del proprio destino, Fedra, sposa del re Teseo, ama perdutamente l’ignaro figliastro Ippolito, il quale inorridito dalla dichiarazione le sfugge sia per non tradire il padre, sia perché caduto a sua volta in preda del fascino della giovanissima Aricia, ultima rappresentante di una stirpe invisa alla famiglia. Fedra, si appresta a morire non appena svela l’oggetto del suo smarrimento, distruggendo anche la vita di Ippolito con la falsa accusa, ordita dalla nutrice Enone e creduta dal padre, di una tentata violenza carnale. Anche Ippolito, esiliato, troverà la morte precipitando dall’alto di uno scoglio trascinato dai cavalli dopo aver ucciso un mostro marino.
La regia estetizzante e psicanalitica di Federico Tiezzi dipana la terribile sinfonia di morte di Fedra descritta da Racine, all’ombra di Freud. «Penso a Freud – dichiara il regista -, ma anche a Lacan: è un testo di confessioni, ogni personaggio confida a un altro qualcosa che “non può essere detto”, uno scandalo la cui emergenza è nella parola». È come avere «…per ognuno dei personaggi principali uno “psicanalista” al seguito: Enone per Fedra, Teramene per Ippolito, Ismene per Aricia».
Le tre donne aprono lo spettacolo in versione cafè chantant, ballando sinuosamente con grandi ventagli dalle bianche piume e accennando al motivo della celebre romanza Je crois entendre encore, dell’opera Les pecheurs des perles di Bizet, aria che chiuderà la rappresentazione. L’apertura di sipario ci presenta la reggia di Trezene come un geometrico salotto marmoreo con mobili leggermente sbilenchi e i personaggi dai costumi bianco e nero di luccicanti fogge clownesche e gorgiere per gli uomini, e lunghe mise nere per le donne.
Tiezzi costruisce uno spettacolo lucido e severo, di bella compattezza pur nel mix stilistico e di arti visive, improntato a una giusta classicità. Quella classicità di cui è segno forte la scena di Gregorio Zurla col funereo salone borghese incorniciato da linee di led, da bianchi busti scultorei, due lampadari di cristallo, e un sipario dorato che apre e chiude il proscenio alternando le diverse sequenze, e con la scultura di un lupo al centro della stanza e, successivamente, di un bonsai dentro una teca in plexiglass.
Al centro del salotto campeggia il quadro Atalanta e Ippomene di Guido Reni, raffigurante la bella eroina, abile cacciatrice e restia al matrimonio, che sfidava i suoi pretendenti a superarla nella corsa credendosi invincibile. Il dipinto la ritrae nell’atto di chinarsi per raccogliere i pomi d’oro e Ippomene che tenta la fuga in avanti riuscendo così a superarla e a vincere la gara. La plasticità delle due figure congelate sulla tela, con le loro gambe incrociate al centro del dipinto, hanno forse ispirato i movimenti coreografici (di Cristina Morganti) creati per gli interpreti, che caratterizzano i loro ingressi in scena contraddistinti da lente posture ieratiche e in sintonia con la stilizzazione dei loro portamenti.
Tiezzi si avvale della poetica traduzione di Giovanni Raboni con le sue raffinate prodezze della lingua e la splendida musicalità dei versi alessandrini, che si traduce in linguaggio teatrale non-letterario, dove si mescolano sacralità e furore, senso del dovere e fatale potenza dell’amore che tutto distrugge. Forse sta proprio nella convivenza di questi conflitti la conclamata “modernità” di Fedra: in quel suo essere donna in lotta contro la razionalità maschile. Così, privato e pubblico si uniscono strettamente in questo testo dove la parola, che sembra impossessarsi del corpo dei personaggi, è tutto.
Fedra è una donna divisa a metà, si giudica, si sorveglia, soffre della perversione di una passione incestuosa. Passione che dà vita a un amore esagerato, fuori dalle regole. Si getta nel vuoto verso qualcosa che non conosce con la stessa lucidità con la quale si perde. Il culmine, nella messinscena di Tiezzi, è quando offre a Ippolito il seno desideroso di morte, e gli strappa la spada dalle mani puntata contro di lei.
Elena Ghiaurov, nei panni di Fedra, attraversa tutte le gradazioni emotive, gli stati d’animo e le scosse intime che connotano questo straordinario personaggio femminile. Da un lato, donna moderna alla ricerca di una non facile autodeterminazione; dall’altro, simbolo archetipico della passione e del furore erotico. Riccardo Livermore è un Ippolito di vibrante postura romantica e di un’inquietudine inedita per l’ansia di purezza; Massimo Verdastro il suo umanissimo mentore Teramene (struggente il suo monologo sul racconto dell’eroica morte di Ippolito); e poi Bruna Rossi, la vecchia nutrice Enone, istigatrice dall’occhio bendato; Martino D’Amico, Teseo marito e padre incapace di vedere il vero, che indossa un pesante visore a raggi infrarossi; la vitale e sentimentale Aricia di Catherine Bertoni de Laet; e la confidente Ismeme di Valentina Elia.
Fedra, produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatri di Pistoia Centro di Produzione Teatrale, e Compagnia Lombardi-Tiezzi, visto all’Arena del Sole di Bologna, prosegue la tournée al Teatro Era di Pontedera, il 5 e 6 aprile, e al Piccolo di Milano, Teatro Strehler, dal 9 al 17 aprile.
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