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Peak Mytikas, Jan Fabre mette in scena la sua critica alla cancel culture
Teatro
Sul dizionario della Treccani, il neologismo della cancel culture (2020) è raccontato come «La folla che nel medioevo era in cerca di gente da bruciare», citando uno dei più noti comici inglesi contemporanei. Una cultura che prova, attraverso la rimozione della violenza, a proporre un’illusoria idea del mondo dove vige solo il bene e il buono, il corpo deve essere coperto e non esiste la libido sessuale. Seppur la cosa faccia sorridere ai tempi di Only fans e del deep web, quella che viene proposta è una visione della vita simile alla proposta commerciale dei social network, ovvero senza conflitti e più appagante possibile per rendere unica e appealing la nostra esperienza. Quindi il David di Michelangelo diventa pornografia, gli algoritmi censurano i nudi di Schiele e pixelano le opere di Canova. C’era un tempo in cui mostravamo i corpi senza vergogna – «Once upon a time / we proudly shamelessly showed our bodies» – ma i tempi sono cambiati. Peak Mytikas (On the top of Mount Olympus) è la risposta di Jan Fabre alla deriva moralista che riempie le pagine di cronaca e che, implicitamente, diventa una risposta anche alla sua situazione recente.
Dopo il debutto a Troubleyn/Laboratorium di Anversa a maggio 2023 e aver girato per il Belgio, il lavoro è stato presentato in prima internazionale all’Out Off di Milano, per due repliche il 4 e l’11 novembre scorsi. Non stupisce la scelta di questo teatro: nel 2004 la sala di via Mac Mahon ha inaugurato proprio con uno spettacolo di Fabre, The Crying Body. Ma non solo. Fu infatti proprio grazie a Mino Bertoldo, direttore dell’Out Off che il regista belga fece il suo debutto sulla scena milanese con The Power of Theatrical Madness nella metà degli anni ’80. Una nota di merito a questo teatro che, dopo oltre 40 anni di storia, si dimostra ancora attento al nuovo e all’internazionale, oltre che il secondo teatro della “città più europea d’Italia” ad aver proposto in stagione – fino a oggi – uno spettacolo straniero.
In continuità con la masterpiece di 24ore Mount Olympus, Jan Fabre ci riporta sul Monte degli Dei per una critica, nel senso etimologico del termine, della società contemporanea a partire dalla tragedia greca. Dieci i performer in scena. Ma, a differenza di lavori precedenti, i corpi sono nascosti sotto pesanti cappe di velluto, che diventano le maschere tutte uguali da indossare per poter vivere nella quotidianità. E solo quando ci si libera dal dogma e dalla maschera, per prendere parola, la cappa viene tolta, mostrando però corpi mutilati. I dieci strepitosi performer, tutti magistrali, Annabelle Chambon, Anny Czupper, Cédric Charron, Conor Doherty, Gustav Koenigs, Irene Urciuoli, Ivana Jozic, Matteo Franco, Pietro Quadrino e Stella Höttler, sono vestiti di garze color carne a coprirne petto e inguine, macchiati di rosso dove sono stati privati delle proprie zone erogene, capezzoli, clitoride, sesso. Solo macchie di sangue su corpi ormai amorfi, senza possibilità di trarre piacere e senza possibilità di darne.
Tre le figure di riferimento attorno alle quali ruotano le otto ore di spettacolo, Prometeo, che ha portato il fuoco sulla terra; Edipo Re, re incestuoso che perde il suo trono, e Antigone, paladina dei diritti dei vivi e dei morti. I dieci “guerrieri della bellezza” si alternano sulla scena per dare voce ai tre eroi, che si mostrano così senza genere, uomo, donna e queer (perché in un mondo politicamente corretto anche le parole acquisiscono il loro significato politico) e pieni di debolezze umane, sottolineando come chiunque possa ritrovarsi nelle condizioni narrate dagli eroi. Ognuno di noi può essere vittima e carnefice, accusato e accusante.
L’esperienza del mondo passa attraverso “la punta del naso”, in un espediente drammaturgico di Johan de Boose che gioca con l’assonanza in greco antico di naso (μυκτήρ) e mito (μυκτήρ). Privati della vista, come Edipo, si riscopre l’uso dell’olfatto, il più ancestrale e misterioso dei sensi. I performer scoprono i corpi, l’ambiente e il mondo attraverso l’olfatto, sniffando l’aria e la pelle come se fossero droga di cui non poterne fare a meno. E anche lo spettatore è permeato dagli odori in scena, come il sudore degli attori chiamati al gioco della ripetizione, che dopo otto ore si mescolano a quelli della platea.
Come in lavori precedenti di Fabre, lo spettacolo si apre con un rave. Questa volta la festa prosegue a più riprese durante le otto ore di spettacolo, con l’arpista in scena Alma Auer, che ha composto anche la colonna sonora dello spettacolo, e le coreografie di Ivana Jozic. Ma vedere (e assistere) a un rave dopo i fatti del 7 ottobre scorso fa assumere al lavoro connotati sociali e ideologici ancora più forti. Mostrare le proprie idee, libertà e vulnerabilità può dare fastidio, essere motivo di odio e, portato all’estremo, motivo di guerra.
Non possiamo eleggere il lavoro a manifesto del regista alla sua condanna da parte del tribunale belga a 18 mesi (senza reclusione) per cinque «Violazioni della legge sul benessere dei lavoratori» e, nel caso di una donna, di «Assault on decency». Ma indubbiamente una critica a una società che, nel nome del “politicamente corretto”, sta provando a censurare la dicotomia tra bene e male, proponendo una sola visione del reale, che non tiene conto del contesto.
«Io non spingo gli artisti oltre i limiti. Sono loro che attraverso la ripetizione del gesto capiscono la libertà che possono raggiungere. E vogliono sempre di più da loro stessi», così risponde Jan Fabre a una domanda spigolosa posta durante l’incontro di mercoledì, 15 novembre, per la presentazione del volume italiano Dall’azione alla recitazione. Linee guida di Jan Fabre per il performer del XXI secolo, Franco Angeli, 2023 (ne avevamo scritto qui).
Gli fanno eco i performer presenti, Matteo Franco e Irene Urciuoli, che sottolineano come la ripetizione del gesto e gli esercizi proposti dall’artista, sia durante le prove sia in scena, e di cui si ha ampio esempio nello spettacolo, danno la possibilità all’attore di far cadere qualsiasi maschera, grazie e a causa della stanchezza fisica che la reiterazione dell’azione porta. Loro hanno così la possibilità di nuove aperture e creazione di nuovi immaginari. E lo spettatore può godersi la bellezza della verità.