Una meraviglia per gli occhi e l’udito, come di rado accade. Attori e musicisti, per una nuova forma narrativa, è il felice connubio che il regista Daniele Abbado ha realizzato nella messinscena del “Peer Gynt” per il Teatro Due di Parma (nell’ambito del Reggio Parma Festival) con l’orchestra dal vivo – la Fil Filarmonica di Milano diretta da Marco Seco – ad eseguire le musiche originali di Edvard Grieg. Collocata al centro di una lunga passerella rialzata – spazio di apparizioni e peregrinazioni dei 15 attori – l’orchestra di 50 elementi gioca sull’alternanza tra musica e racconto.
Dramma in versi in cinque atti di Henrik Ibsen, con la musica originale di Grieg composta per l’opera su richiesta dello stesso drammaturgo, si rifà a un collage di leggende popolari norvegesi. È opera mastodontica, odissea con una cinquantina di personaggi, poema epico tragicomico che riflette la tormentata vita di Ibsen, il quale, insofferente per “un vuoto ordine sociale”, lasciò la Norvegia stabilendosi in Italia, per “ritrovare sé stesso”. Con un cast ridotto e un adattamento più contenuto, l’allestimento di Abbado riduce il tempo teatrale e musicale a poco più di due ore facendo scorrere la complessa trama con un ritmo che cattura e non lascia più.
Leggenda, sogno e realtà si mescolano nelle vicende di Peer. Seguiamo la trama dell’egocentrico personaggio mentre lascia la casa povera che condivide con la madre, disperata per il figlio bugiardo patologico; additato dal villaggio diventa un fuggitivo; corteggia sconsideratamente diverse donne e scappa dalla sua terra per avventure esotiche all’estero. Dopo anni di disavventure e di incredibili fortune, stanco del mondo ma ancora vanaglorioso, è svuotato dentro. Ombreggiato dalla Morte, il Fonditore di bottoni che vorrebbe sciogliere la sua anima in una padella sfrigolante, Peer chiede l’assoluzione. Ritrova, dopo averla da giovane abbandonata per il piacere mondano, il suo vero e puro amore, Solveig, che l’ha atteso pazientemente. Ritrovatolo, ormai anziano, lo accoglie con braccia amorevoli, meritevole di redenzione. Quello di Peer, nel suo continuo perdersi, trovarsi e riperdersi, è stato un viaggio con la coscienza d’aver vissuto credendo d’essere una cosa e d’aver obbedito a impulsi profondi, mentre in realtà s’è sempre accontentato di restare quello che è, un mascalzone stupido, una figura da commedia cui capita a più riprese di imbattersi nella morte, diventando tragico malgrado sé stesso.
Vivace, giocosa, leggera e profonda, la messinscena sprigiona quella meravigliosa magia che è il teatro. Nessun effetto visivo, nessun artificio, qualche oggetto (tra cui le cipolle scaraventate sul palcoscenico) perché bastano i corpi degli attori, la loro voce, il loro saper evocare, scorrazzando dentro e fuori le porte della geometrica ed essenziale scenografia tutta nera, quel mondo onirico e fantastico che diventa anche il nostro.
Un Narratore, quasi sempre presente – a osservare le azioni, a sintetizzare la storia, a dire brani delle didascalie del testo -, ci accompagna in tutto il percorso del protagonista alla ricerca di sé, attorniato da un’umanità variegata, buffa anche nei colorati, magnifici costumi che alternano fogge d’epoca e moderne (da citare quelli punk dei Troll, un’esplosiva fantasia psichedelica) segnando l’evolvere del viaggio di Peer. Una regia, questa di Abbado, ispirata, con momenti che si imprimono nella mente: come il finale con Solveig che, cantando culla l’amato rannicchiato sul suo grembo. Quasi una poetica, scultorea Pietà dei perdenti.
Attori tutti in stato di grazia (impossibile citare tutti), con al centro Pavel Zelinskij, perfetto nel ruolo del carismatico raccontafrottole, dalla luminosa presenza fisica e nella sua interpretazione di travolgente energia.
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