26 agosto 2024

Per un teatro del presente. E del coraggio. Intervista al regista Leonardo Lidi

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A margine della quinta edizione del Ginesio Fest, nelle Marche, ne abbiamo intervistato il direttore artistico, Leonardo Lidi: il teatro italiano deve guardare al futuro, facendo scelte coraggiose

Leonardo Lidi,
Leonardo Lidi, Foto di Gianluca Pantaleo

Dal 18 al 25 agosto 2024 San Ginesio (MC) ha ospitato la quinta edizione del Ginesio Fest, diretta da Leonardo Lidi. Un festival diffuso che è diventato un punto di riferimento nel mondo teatrale italiano, trasformando San Ginesio in un palcoscenico che annulla la distanza tra attore e spettatore. Il tema del Ginesio Fest 2024 è stato la SOLITUDINE, come esclusione da ogni rapporto di presenza o vicinanza altrui: vivere in solitudine; desiderato o ricercato come motivo di pace o di raccolta intimità: cercare la solitudine; sofferto in conseguenza di una totale mancanza d’affetti, di sostegno e di conforto: sentire il peso della solitudine.

Finalista ai Premi Ubu 2023 per lo spettacolo Zio Vanja, la seconda tappa del progetto Čechov prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria in coproduzione con il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Spoleto Festival dei Due Mondi, Lidi ha appena vinto per questo spettacolo il premio Flaiano.

«Succede, anche se non hai santi in paradiso. I premi, se lavori seriamente, arrivano – scherza Leonardo restio a parlare dei riconoscimenti che riceve – È un progetto per il quale  ho detto dei grandi no, anche a produzioni cinematografiche. È stata una scelta difficile.  Ma mi ha reso felice sapere che non sono solo nel percorso, ma che ci sono occhi che lo valutano».

Leonardo Lidi, Foto di Luigi Depalma

Normalmente si dice no al teatro per dare la precedenza al cinema, mai viceversa…

«Lo so, però ho la fortuna di lavorare con teatri Stabili. Con altre economie rispetto al cinema, ma la mia priorità è il teatro. È inutile fingere che non ci sia un pensiero ai benefici economici, ma devo dire che la mia compagna Giuliana (Vigogna – nda) mi aiuta a ricentrarmi quando devo fare scelte importanti. Non è stato facile rinunciare a essere protagonista di una serie…tanti anni di serie».

Scelta coraggiosa, perché in teatro non sai quante repliche farai…

«Sì, ma sono sereno e felice».

Hai ricevuto il premio Flaiano per la regia. Prima gli anni del teatro di regia, poi gli anni di critica e distruzione del teatro di regia. Che idea hai della regia?

«La regia è in continua evoluzione; sicuramente senza troppi padri. La difficoltà, in Italia, è di essere sempre associati a percorsi o maestri del passato. A volte mi paragonano a registi che non ho mai incontrato. Bello, ma si sottolinea sempre il passato senza considerare in maniera politica il presente e il futuro. C’è una mala educazione a pensare al teatro con gli occhi del passato, non comprendendo che il teatro è stato costruito per parlare al pubblico del presente. Alcune mie scelte, che possono risultare azzardate per il pubblico italiano, in altri Paesi sarebbero quasi vecchie. Come toccare i testi. La figura del dramaturg qua non è contemplata, perché voglio vedere Goldoni come l’ho visto da bambino. Ho appena fatto Il giardino dei ciliegi, che ha uno storico di spettri devastante. La regia di Strehler è famosa in tutto il mondo, ma non è che per questo non possiamo più fare Il giardino dei ciliegi».

Come si combattono gli spettri?

«Con la drammaturgia contemporanea, dando la possibilità ai giovani drammaturghi di scrivere. Con il teatro Stabile di Torino abbiamo prodotto un drammaturgo di 24 anni, Diego Pleuteri, e sto lavorando perché accada regolarmente.  Anche con la regia, non dobbiamo accontentarci di quello che già conosciamo. Il punto è: che pubblico stiamo costruendo? E questo dipende dai direttori artistici. Spesso le stagioni teatrali si avvicinano alle proposte televisive, a livello di nomi, di scelte, di idee. È inaccettabile vedere che alcune stagioni di teatro sono accozzaglie di volti che tu hai visto in televisione. Soprattutto nel teatro pubblico, che fa uso di soldi pubblici: non puoi dare lo stesso servizio che può dare la televisione per garantirti un pubblico. Questo lo può fare un teatro privato».

Forse il cortocircuito sta nel fatto che i direttori artistici non cercano un pubblico, ma ripianare i debiti vendendo biglietti?

«In alcuni teatri il direttore artistico è una figura che sta tornando al centro. Al Piccolo gli anni di Longhi sono stati importanti perché ha portato artisti nuovi; ma anche lo Stabile di Torino, con cui io lavoro, o Carmelo Rifici a Lugano stanno facendo lavori importanti. Soprattutto nelle grandi città, certi teatri devono assumere un’identità specifica come accade al Maxim Gorki di Berlino: un teatro frequentato da molti giovani, esposto politicamente. I teatri fuori dal circuito degli stabili dovrebbero avere un coraggio identitario che ora non c’è e iniziare a esporsi. Prima di pensare al pubblico bisogna pensare a un’idea di teatro; poi il pubblico viene. La pandemia ci ha fatto capire che il teatro è necessario, più del cinema. Per questo non puoi tenere una programmazione come quella di prima: il pubblico sta dimostrando fiducia, amore e dobbiamo rispondere con coraggio.

Ecco perché ho preferito fare scelte coraggiose, favorire scambi culturali con altri artisti. Se il teatro resta un parcheggio in attesa che mi chiamino a fare una serie, si percepisce. Oppure faccio teatro quando ho due mesi liberi… no, quando tu hai due mesi liberi riposati che il teatro lo facciamo noi».

Ma il precariato è da decenni la condizione dell’attore e spaventa…

«Sono in mezzo agli attori quotidianamente, figurati se non comprendo le paure degli attori. Però il teatrante deve decidere che cos’è oggi: non si può nascondere nel teatro del passato; e ogni volta che il pubblico ti chiede di essere qualcosa del passato, qualcosa che non sei tu, bisogna rispondere in maniera forte. Mi criticano da anni per i microfoni, che non vanno usati perché la voce deve essere quella dell’attore, perché Carmelo Bene diceva… Io non ci penso minimamente a non usare i microfoni. Le mie sono scelte in cui credo fortemente, prima di tutto da spettatore internazionale. Ecco un altro limite: non puoi pensare di fare il direttore artistico o il critico senza mettere il naso fuori: devi sapere che cosa succede nel mondo.

Ci vuole forza a dire io sono un teatrante, io ho studiato. Mi arrabbio quando mi danno del “regista giovane” e mi trattano come un attore appena uscito dall’accademia: la mia prima regia l’ho fatta a 17 anni; ne ho 36, sono 20 anni che faccio questo lavoro e da 10 anni i miei spettacoli sono prodotti da Stabili nazionali. Non mi puoi considerare come uno che ha fatto una regia solo perché ho la stessa età. È una mancanza di rispetto per i percorsi.

Nei teatri mitteleuropei sono orgogliosi degli attori che lì sono stati formati, che lì hanno fatto il loro percorso, che hanno contribuito a formare il pubblico di quel teatro; attori che non hanno nessuna intenzione di andarsene via per fare un po’ di cinema.  Sono realtà dove il teatro non è visto come una materia “usa e getta”, ma come investimento. I teatri, e soprattutto i grandi registi, non devono far passare il messaggio che per arrivare al pubblico devi lavorare sì in teatro, ma anche al cinema e in televisione. Per me avere fatto Il misantropo con Cristian La Rosa al Carignano è fondamentale, come aver fatto il Progetto Čechov senza attori di grido nel mondo cinematografico o televisivo, senza nessun “attira mosche”. Così gli spettacoli diventano progetti politici».

Questa edizione del GinesioFest è dedicata al monologo. Curioso visto che sei uno che va in scena con tanti attori. Veniamo da anni di monologhi per due motivi: costano poco, ti basta una sedia come scenografia, e sono lo spettacolo per eccellenza che soddisfa  l’egocentrismo di molti attori. Per te monologo è invece sinonimo di solitudine…

«Non ho mai fatto monologhi da regista. Per me la comunità è fondamentale. Il monologo, da regista, non mi interessa; da spettatore sì. È il fenomeno del nuovo millennio.  Il monologo è stato molto usato per motivi economici, per motivi poetici; magari per avere la star che si impara un testo a memoria e, quando ha due settimane libere, lo porta in giro. In più, per il monologo non serve regista.

San Ginesio è il borgo degli attori, e non il borgo dei registi: deve interrogarsi su che cosa stanno facendo gli attori. La solitudine è una condizione sempre più presente, soprattutto a causa del boom tecnologico. È uno spauracchio che dobbiamo analizzare. La mia sensazione è che non ce ne rendiamo conto perché le chat sui social ti fanno sentire in compagnia, ma non lo sei: è devastante. Hai una percezione, che però è un’illusione. Dal punto di vista artistico è interessante che, per il processo creativo, la solitudine è una condizione spesso necessaria. Io, per riuscire a creare, devo stare mesi nella mia stanza, da solo, con i miei fantasmi: è la condizione della solitudine che genera un processo creativo».

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