La prima sequenza è folgorante: il buio che si apre lentamente rivelando un gruppo compatto di “pennuti” – maschere di galline per la precisione, che coprono il volto degli attori -, con rosari in mano, recitare, tra movimenti a scatti della testa e versi dei loro becchi, una litania incomprensibile di preghiere. Sostano davanti a un’ampia gonna nera di penne, che si muove a terra. Da lì uscirà, sforzandosi, prima la testa, poi il torso nudo di Re Chicchinella aiutato da alcuni servi, pronti a pulirlo nei lavacri quotidiani. Con fatica e dolore però, tra spasmi e contrazioni. Perché il sovrano ha un grosso problema fisico dovuto all’aver introdotto nel suo orifizio, per svista nel ripulirsi con delle piume dopo aver defecato, una gallina viva ma creduta morta. La particolarità della pollastra è che ogni giorno, se nutrita, cova delle uova d’oro.
L’oggetto prezioso ringalluzzisce – per rimanere in tema – la corte aristocratica con i suoi famigliari e lacchè, che si prodigano in adulazioni, sorrisi e pressanti attenzioni verso il sovrano, invogliandolo – e lui scioperando – a mangiare affinché possa continuare, ogni volta che si ciba e va di corpo, a produrre quel bene dorato. Lui però non vuole saperne. Cosciente di essere oggetto di ingordo interesse solo per le uova d’oro da espellere, e triste nella sua inquieta solitudine, preferisce non nutrirsi – sperando di espellere la gallina -, disposto anche a lasciarsi morire per mettere fine ai dolori che lo affliggono.
Attorno a questo surreale racconto di Giambattista Basile (1583-1632) – terza e ultima “favola nera”, dopo La Scortecata e Pupo di zucchero, di una rilettura teatrale attorno alla raccolta Lo cunto de li cunti del novellista partenopeo – Emma Dante innesca, con 15 caratterizzati interpreti, alcuni in ruoli specifici e tutti in una bizzarra, divertente coralità, un balletto di azioni ricco di immagini che sembrano prendere vita da quadri del Settecento napoletano rielaborati con le grottesche pennellate dalla tipica tavolozza creativa della regista siciliana.
Su brani musicali di Händel (la celebre aria Lascia ch’io pianga), e del compositore Stefano Landi (una Passacaglia salmodiata in versione barocca), tutto è affidato ai corpi degli attori, alla loro dissacratoria e funambolica fisicità che attinge anche alla Commedia dell’Arte. Si susseguono scene di avidità, ingordigia e ingozzamenti – di spaghetti, che ricordano Miseria e nobiltà; di pasticcini divorati e sputati, come in mPalermu, spettacolo rivelatore della regista siciliana; di vertiginosi e buffi balli circolari tra calici e fette di mortadella; di bizzarri rituali aristocratici tra alterchi e insulti; di dispute sul primato della cucina napoletana o francese.
Alternando lingua “bassa” e “alta”, tipica di Basile e sgrammaticata giocosamente dalla Dante, scatta un comico grammelot francesizzante e musicale napoletano, con momenti di dialoghi poetici e altri di sconcezze a raffica. Svolazzano piume, passerelle di trine e lunghi abiti luttuosi, altri dalle fogge variegate e costumi dalle cosce imbottite; irrompono, per il salotto del the, sfilze di sedie trasformate poi in inginocchiatoi per il funerale del re, morto dopo che col forcipe si è provato di estrargli dal corpo l’ingombrante gallina. Prima di spirare avrà fatto ammenda del suo esercizio del potere – “…Non sono stato un re ingiusto” – dirà, e inveirà contro i suoi adulatori.
Tra realtà arcana, incubo e sogno, Emma Dante, nella sua messinscena di Re Chicchinella (produzione Piccolo Teatro di Milano), focalizza l’intreccio familiare tra il sovrano, la regina e la principessina loro figlia, evidenziando i feroci inganni delle relazioni famigliari quando rette da egoismo, avidità e anaffettività, e le aberrazioni del potere sempre in atto con l’ottusità che instupidisce, e condannano il re a una profonda solitudine. Intrigante la sequenza finale di tutti i cortigiani in lunghi abiti luttuosi attorno alla tomba del sovrano – bravissimo, nell’iter fisico e mutevole, Carmine Maringola, perno dello spettacolo – trasformata, infine, in un’aia da dove sbucherà una gallina viva, mentre s’alza la canzone di Franco Battiato, Passacaglia, le cui parole possono, come nelle fiabe, insegnarci qualcosa: «Vorrei tornare indietro per rivedere il passato, per comprendere meglio quello che abbiamo perduto. …Viviamo in un mondo orribile. Siamo in cerca di un’esistenza. …Vorrei tornare indietro, per rivedere gli errori, per accelerare il mio processo interiore».
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