«Adesso finiranno e tornerò a respirare…adesso i colpi finiranno e tornerò a respirare… È troppo presto, sono troppo giovane… finiranno e tornerò a respirare… smetteranno…smetteranno… Poi solo un sibilo». Fino al 25 febbraio, Roberto Andò dirige all’India di Roma Storia di un oblio di Laurent Mauvignier, un potente testo dove “non si può morire così”. Perché ripetere una menzogna non può e non deve far sì che questa si trasformi in realtà. Perché non si può morire per una lattina di birra. Perché non si può morire per colpa propria. Perché la realtà non può essere quella deformata dalle bugie.
Seduto su una sedia come quelle disposte attorno al palco, con la testa tra le mani, un uomo. Accanto, suo fratello. Un fratello, un figlio, un amico, un genitore, un figlio. Chiunque ha parenti o amici. Chiunque potrebbe essere l’uomo accanto a quel sacco. Uno qualsiasi degli spettatori seduti su quelle sedie.
È cinematografica la regia di Roberto Andò, in 3D. E per Storia di un oblio la frase “è stata rotta la quarta parete” non serve, non c’è nessuna quarta parete, siamo tutti in scena. Come ad ascoltare un racconto attorno al fuoco. Attorno a un corpo. Col pubblico financo sul palco e Vincenzo Pirrotta che arriva a sedersi in platea. Urla, suda, gesticola concitato, si spoglia. Riempie il palco, riempie il teatro. Corre in senso orario attorno a quella strana ara e stranamente ricorda la danza del cerchio dei nativi americani. O la loro danza dei fantasmi. Rabbia, violenza, disperazione, parole veloci. Pirrotta fissa negli occhi chi lo ascolta attonito, abbraccia, stringe mani, interroga.
Al centro del palcoscenico, deposto su una sorta di ara sacrificale, un sacco di plastica, di quelli anonimi che siamo abituati a vedere in tante serie crime, con un corpo senza nome ma che, prima della fine dello spettacolo, avrà un volto. Un volto che ognuno di noi ha visto almeno una volta nella vita, un volto che, quello no, non può e non deve cadere nell’oblio.
Il testo originale di Laurent Mauvignier è scritto senza punteggiatura, in un flusso di parole che sgorgano senza fermarsi come il sangue che si riversa sul pavimento bianco della stanza adiacente al supermercato. Leggerla così, senza punteggiatura, vuol dire rimanere senza fiato. Senza fiato: come gli spettatori, mentre un silenzio assordante regnava nella sala del teatro India. Quasi fossimo tutti chiusi in un sacco. In attesa di tornare a respirare.
Senza fiato, in attesa di tornare a respirare. Perché “adesso finiranno i colpi e tronerò a respirare”. Così nella testa di un essere umano colpevole di aver avuto sete, di aver bevuto una lattina di birra in un centro commerciale senza pagarla.
Una drammaturgia con tanti protagonisti nascosti nelle pieghe del testo. La vittima: “davvero lo avete fatto solo per il mio aspetto?”. I vigilantes nelle loro divise d’ordinanza che si volevano solo divertire: “mica volevamo ammazzarlo”; colpevoli non della morte di un uomo, ma del fatto che volevano divertirsi. Gli ignavi: “ho saputo di tuo figlio, mi dispiace, in che mondo viviamo”. La vita “che se ne va come un parassita che abbandona una carcassa che non serve più”. La morte, che non è più al centro della tragedia, non più il reato, la conseguenza di un gesto riprovevole, ma solo l’espediente per indagare la vita della vittima, per scovarne lati oscuri e, all’occorrenza, inventarne. I valori del cosiddetto uomo moderno, che dà un prezzo alla vita e della morte, fosse anche quantificata in lattine di birra.
Il gruppo che diventa branco, che continua a infierire anche quando è evidente che sta colpendo un morto che non doveva permettersi di morire, ma che non doveva neanche permettersi di sperare. La manipolazione dell’informazione, che si concentra sui motivi, che contribuisce alla strumentalizzazione dell’oblio. L’oblio, individuale, che inneschiamo per proteggerci, e collettivo, che interi strati della società usano per allontanare da sé il giudizio per le colpe commesse. Un eventuale dio, che esiste in un altrove lontano dalla mente degli uomini. La speranza, quella che ti fa credere fino all’ultimo momento “adesso finiranno i colpi e tornerò a respirare”; mentre muori “per colpa tua” e “alla fine tutto dorme nell’oblio”.
Una storia frammentata, un alternarsi di voci, dai due fratelli ai vigilantes, ricostruita con un sapiente montaggio. Per tutti un solo attore, Vincenzo Pirrotta, in un monologo potente, dalla struttura narrativa non lineare, un flusso di coscienza, che Roberto Andò trasforma in un testo ancora più politico legandolo a un episodio inquietante della recente storia italiana.
“Il procuratore ha detto che un uomo non può morire per così poco, che non è giusto morire per una lattina di birra”. Era iniziato così, con la frase che il magistrato pronuncia alla fine della storia, “Storia di un oblio”, uno spettacolo che dura solo cinquanta minuti e che è esso stesso un colpo inferto allo spettatore. Cinquanta minuti di colpi: i primi li schivi, gli altri ti mettono a terra.
Al termine, un lungo, commosso, patetico applauso da un pubblico che non ha detto nulla, non ha gridato “Bravo!”; che non riusciva a parlare, occhi fissi, labbra serrate, muscoli ancora tesi. Un pubblico che, lui sì, è tornato a respirare. Che si è attardato davanti a un palco ormai vuoto, al proprio posto, ancora in silenzio, senza grandi commenti. Che è uscito come in composta processione, senza il solito animato chiacchiericcio, senza feretro, lasciato nel luogo sacro del teatro, mentre l’anima di quel corpo martoriato usciva, a piccoli pezzi, come un’ombra, incollata a ogni singolo spettatore. Nera.
“Storia di un oblio” replica al teatro India di Roma fino a domenica 25 febbraio.
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