25 luglio 2024

Sulla maestria del teatro dell’ideale: intervista al regista Alessandro Serra

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A Treviniano, nel Lazio, al via un progetto di formazione teatrale diretto da Alessandro Serra: con il regista parliamo di pedagogia, recitazione, rapporto con il pubblico e sfumature della voce

ALESSANDRO SERRA
ALESSANDRO SERRA

Dal 26 luglio al 2 agosto, Trevinano, piccolo borgo di Acquapendente (VT), ospiterà il progetto triennale diretto da Alessandro Serra, Sulla Maestria – tre atelier residenziali nel triennio 2024-2026, all’interno dell’intervento di rigenerazione culturale, sociale, economica Trevinano Ri-wind, finanziato dal PNRR.  La formazione sarà affidata al regista Alessandro Serra, coadiuvato da Vladimir Olshansky, Bruno Leone, Guido Di Palma (del Dipartimento SARAS, Sapienza Università di Roma), Alessandro Toppi e dalla Compagnia Teatropersona.

Del progetto ne abbiamo parlato con Alessandro Serra

Treviniano
Treviniano

Come lavorerà con gli allievi?

«Di fatto i maestri sono Bruno Leone e Vladimir Olshansky, entrambi eredi di due tradizioni: il teatro popolare delle guarattelle e la scuola russa di clown.

Ho chiesto a Bruno di trasformare i canovacci in un copione scritto. Le danze le aprirò io, coinvolgendo gli attori in una simulazione di messa in scena. Poi la conduzione passa a Vladimir, il quale lavorerà sulla stessa scena ma con il metodo russo. La terza fase ci riporta all’attore-manovratore-autore che mostrerà gli scenari con tanto di baracca e burattini. Sarà come lavorare sul Don Giovanni e a un certo punto avere l’apparizione durante le prove di Moliere che ci chiede esterrefatto: “mais que faites-vous?” – “Monsieur Moliere, stiamo facendo il nostro teatro a partire dal vostro. Come voi avete fatto il vostro a partire da quello degli altri”.

L’intento non è trasmettere un metodo ma interrogarsi sul mestiere, ponendoci di fronte a piccole simulazioni di atti creativi, cercando di coglierne l’essenza e la ripetibilità.

Possiamo ad esempio lavorare su Pulcinella che beffa il boia ed espiantare un dispositivo comico da poter innestare in un dialogo fra re Lear e il suo matto.

Ci sono forme che ritroviamo ovunque ma accecati dalla mania del nuovo non ce ne rendiamo conto. Quando Onlio guarda in camera fa esattamente quello che faceva Aristofane con la parabasi e Shakespeare con gli a parte: cade la maschera dei personaggi e si chiama in causa il pubblico.

Sono degli archetipi della comicità e allora è importante porsi delle domande: Quali sono? Come si possono realizzare? Perché funzionano? C’è solo un modo per capirlo: il pubblico».

Di cosa pensa ci sia urgente bisogno nelle scuole di recitazione?

«In Italia ogni anno si diplomano centinaia di attori con la triste constatazione che, fra di loro, pochissimi lavoreranno. L’altra anomalia è la mancanza di un codice. Ogni scuola propone diversi moduli didattici, spesso senza alcuna relazione organica tra loro. All’epoca di Orazio Costa c’era una accademia e un metodo. Gli attori possedevano un linguaggio comune. L’alternativa alle accademie è l’illusione di potersi formare saltando da un laboratorio all’altro. C’è poi una terza via che per me è la maestra: la formazione all’interno di una compagnia teatrale: un insieme di persone che si mettono insieme e decidono di fare teatro. In questo caso è proprio grazie alla necessità di dover sbarcare il lunario che la formazione diventa un’emergenza, quasi un’ossessione.

In compagnia ci si forma imitando e rubando, si sta seduti dietro le quinte e si osserva chi sa fare il mestiere e lo si imita. Si imparano a memoria tutte le battute nella speranza che si debba entrare a sostituire qualcuno. E quel qualcuno lo sa che gli stai rubando il mestiere, ma sa anche che solo grazie a questo furto – che è pedagogia – la sua voce sopravvive, il mestiere sopravvive. Questa è la tradizione. Oggi per una giovane compagnia i teatri sono preclusi. E senza il pubblico non c’è formazione. E così agonizzano le compagnie e la cultura della compagnia che per oltre sei secoli è stata la struttura portante del teatro italiano.

La verità è che mole persone trascorrono una vita a cercare di fare l’attore. Ma scrivere progetti, vincere bandi, fare training, insegnare recitazione e andare in scena una ventina di volte l’anno (se ti dice bene) non è fare l’attore. Io e i miei compagni di Teatropersona abbiamo sacrificato quindici anni della nostra vita per inseguire quel sogno.

La mia fu una scelta: avevo conosciuto Kantor e mi ero persuaso che l’accademia non fosse il luogo preposto per procurarmi il viatico necessario a quel viaggio tra i morti.

Le scuole poi sono spesso connesse ai teatri e gli attori e i registi diplomati hanno occasioni che altri non hanno. Chi viene dalla compagnia, in Italia, non ha alcuna possibilità. Ma se potessimo scendere in strada, mostrare la nostra arte e poi sfoderare il cappello e, con pungente dignità, chiedere la nostra paga, stai certa che il sistema teatrale si ribalterebbe».

Una giovanissima attrice, nota per una serie su una piattaforma, mi diceva di aver lavorato con i coach perché un’accademia l’avrebbe privata della sua spontaneità. Possiamo mandare in pensione Mejerchol’d e riporre in soffitta i testi di Grotowski?

«Se fosse spontanea non starebbe su una piattaforma ma su un palcoscenico. Perché il teatro è il luogo in cui si può smettere di recitare e iniziare a esporsi. Quella che chiamano spontaneità non è che imitazione della spontaneità. Un tentativo di pompare sentimenti per ottenerli, a forza, dall’altro. La spontaneità autentica invece è leggera e libera. Se la vocazione è Netflix, allora la strada giusta è proprio quella dei coach, non dei maestri.

Il libro è in realtà l’unico strumento che ci può salvare dall’epigonismo. Leggendo i suoi libri, Grotowski stesso appare assai poco Grotowskiano. Scrive ad esempio che il training serve per liberare l’attore, e quindi se un attore è già libero e in grado di donarsi al pubblico, non deve praticare nessun allenamento.

Nel training, dice Grotowski, affiora spesso un auto compiacimento che non fa che rimandare l’atto. Cioè rimandare il momento creativo e dunque precludere l’incontro con l’altro. L’insegnamento è cristallino: “bisogna mettere l’attore a confronto con il seme creativo”.

Per questo il training migliore è quello che nasce nel corso delle prove.

Quello che faremo è: simulare processi creativi attraverso lo studio di principi ben delineati. Costantemente in connessione con il seme creativo».

Treviniano

Teatro e cinema sono così lontani?

«Se per teatro intendi delle persone che si vestono da persone e che imitano altre persone che, munite di microfono, sussurrano un testo, allora teatro e cinema sono la stessa cosa. Se ti riferisci al teatro come rito ancestrale, popolato da figure che cantano la parola e danzano l’immobilità, allora cinema e teatro sono due cose completamente diverse.

Al cinema l’attore riproduce la recita del quotidiano giocando magistralmente con qualcosa che in realtà tutti esperiscono quotidianamente: la finzione dei sentimenti. In teatro non si deve imitare il reale, ma incarnare l’ideale».

La recitazione teatrale è spendibile al cinema. E l’inverso?

«L’inverso è più complicato. In realtà oggi è facile, poiché il teatro è per lo più un rifacimento dal vivo di situazioni cinematografiche o televisive. Ci si muove e si parla come al cinema, con tanto di esposizione falsata di falsi sentimenti. E così gli spettatori si consolano nel vedere in scena la farsa del quotidiano. Il teatro non deve mai essere consolatorio, il teatro deve porgere lo specchio e metterci di fronte al nostro abisso. Oggi chiunque può andare in scena così come chiunque può scrivere un libro.

Quando Anna Magnani tornò al teatro dopo una vita trascorsa davanti alla cinepresa, chiamò Eduardo chiedendogli aiuto. Temeva che la sua voce non si sentisse, perché quello strumento non lo aveva più allenato. E stiamo parlando non di una attrice qualunque, ma di una forza della natura. “Io sono abituata al microfono, Eduardo Vienimi a sentire”. Eduardo andò e molti anni dopo disse in un’intervista: “Non aveva bisogno nemmeno della voce! Che te ne importa della voce! Tu parli con le mani!”

Lo stesso Eduardo propose a Mastroianni e Sofia Loren di fare Filomena Marturano a Broadway. La Loren rifiutò. Aveva paura del teatro, racconterà Mastroianni. Anche a Catherine Deneuve propose di fare del teatro…”Ma chi è nato dal cinema, teme il teatro!”.

Quando Iago inocula il veleno a Otello, questi, scrive Shakespeare, “falls in a trance”. Quanti attori sono in grado di compiere un simile prodigio. Non fa il matto, cade in trance. Così come quello non è un fazzoletto, ma un talismano nel cui tessuto, dice Otello, c’è una magia poiché́ fu creato da una Sibilla. La differenza è tutta lì: se è un fazzoletto facciamo cinema, se è un talismano facciamo teatro. La cosa triste è che oggi facciamo il cinema a teatro. Per uscirne dobbiamo ribaltare tutto: mutare l’isteria in trance e trasfigurare l’oggetto in un talismano».

Treviniano
Treviniano

Scomparse le compagnie, con i teatri pubblici che non danno spazio alle nuove produzioni, con spettacoli in cartellone pochi giorni, il povero attore dove dovrebbe esercitare il suo mestiere?

«Domanda cruciale e dolorosa. Alcuni attori riescono a entrare nel così detto giro e lavorano molto; e in alcuni casi è giusto perché sono bravi. Ma non si va mai davvero a fondo e non c’è mai crescita artistica. In un mese si può solo ripetere quello che si sa fare, per questo il cast è fondamentale. Ma così non c’è rischio, né follia, si può solo allestire un testo, più o meno bene. E poi, quante repliche fa uno spettacolo? Anche le grandi produzioni dopo un anno muoiono. MACBETTU è arrivato quasi alla quattrocentesima replica, Il Principe Mezzanotte le ha superate. Sono spettacoli che girano da 7 e 15 anni, grazie all’abnegazione di artisti e artigiani che tengono in vita il repertorio in un sistema che spinge in direzione opposta.

C’è poi un fatto ancor più penoso della mancanza di spazi per le compagnie e cioè l’illusione dei premi e dei bandi. Ma perché deve essere un valore avere meno di trent’anni? Non è vero che così si aiutano i giovani. Così si creano i conflitti e si recide il cordone della trasmissione. I giovani di vent’anni non devono fare gli autori (o almeno non necessariamente), devono imparare il mestiere dai vecchi ottenendo l’onore di condividerci la scena. Poi questo disperato ricerca di nuovi testi e nuovi autori. I talenti migliori oggi si mettono a scrivere sceneggiature, non pièce teatrali. Infine i premi: fare teatro per vincere il premio o il bando. Questa è la morte dell’arte. L’ennesima ferita inflitta ai giovani e alle compagnie».

Ma prima del microfono, uno che stava morendo, come sussurrava? Significa che Shakespeare lo recitiamo meglio oggi che nella Londra elisabettiana?

«A volte chiedo a dei bravi attori: ma perché usi il microfono? Non ne hai bisogno. Le risposte sono: mi serve perché lavoro con la musica dal vivo. Per millenni gli attori hanno recitato cantando dal vivo accompagnati da strumenti acustici. Duemilacinquecento anni fa gli attori cantavano e recitavano accompagnati da strumenti musicali non certo elettrificati.

La seconda risposta è che senza microfono certe sfumature non si possono fare. Chiedo: ma chi te le ha chieste ‘ste sfumature? Mica stai doppiando Robert De Niro allo specchio! Certo nell’epoca del sussurro orgastico, in cui pure quando si deve chiedere che ore sono, certi attori sembrano nel pieno di un amplesso, i sussurri amplificati possono consolare il pubblico.

Infine la risposta delle risposte: perché non si sente. E così anche i bravi attori ricorrono all’amplificazione mortificando la propria voce. Quando la voce esce dal corpo dell’attore e arriva allo spettatore, c’è come un contatto tattile, una carezza, un colpo, un fatto fisico. Quando invece la voce esce da un altoparlante, si attivano organi di percezione meno sottili, oltre al fatto che non si capisce mai chi è che sta parlando, perché la voce esce sempre dallo stesso punto morto. Quindi la scena si piega a questa esigenza di ordine televisivo.

E poi la fatica. Un attore che usa la propria voce per arrivare agli spettatori genera un’energia enorme, al termine della replica è spossato, affaticato. Questa energia è nutrimento e dono per gli spettatori.

Per quanto riguarda Shakespeare, non lo sappiamo recitare perché lo recitiamo come fosse un film di Scorsese e non un archetipo dell’umanità. Non sappiamo più declamare, cantare recitando e recitar cantando.

Prendiamo la scena de Il giardino dei ciliegi in cui Ljuba incontra Trofimov. Proviamo a immaginare una madre che, parlando di suo figlio annegato in un fiume, mentre piange, debba dire: “Il mio bambino è morto, è annegato… Perché, amico mio? Perché?”.

Se fosse un film questo pianto potrebbe essere un sommesso sussurro di dolore, e funzionerebbe senza dubbio; ma in teatro? Certo il radiomicrofono consente all’attrice di sussurrare questo dolore, ma così facendo gli spettatori vengono esclusi. Non perché non sentono, anzi con il radiomicrofono sentirebbero molto meglio che in acustica. Il fatto è che al cinema la Ljuba parlerebbe a Trofimov e poi al pubblico. In teatro deve avvenire il contrario. In teatro la voce abbraccia prima il pubblico e poi l’attore coinvolto nel dialogo. Quel sentimento di dolore non riguarda i due personaggi o i due attori, riguarda l’umanità. Il capolavoro di certi attori è trasformare musicalmente il proprio sentimento personale in un sentimento collettivo. È questa la grande differenza».

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