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Sulla scena per reinventare la tragedia: venti anni di Teatro dei Venti
Teatro
In occasione del ventennale, il 5 aprile 2025, verranno aperte le porte del rinnovato e riqualificato Teatro dei Venti di Modena, per una giornata di incontri, condivisioni, studio, e la presentazione del libro Utopie nel mezzo. Vent’anni del Teatro dei Venti guardando al futuro (Ed. Titivillus) che racconta la storia della compagnia modenese. Un’opportunità per ripercorrere il percorso e confrontarsi sul tema Perdersi e Orientarsi, un filo rosso che ha segnato il cammino artistico e umano negli ultimi 20 anni di una compagnia tra le più conosciute e consolidate in Italia anche per l’esperienza del lavoro in carcere.
Dal 2006 opera, infatti, nella Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, e dal 2014 nella Sezione Femminile della Casa Circondariale Sant’Anna di Modena, con laboratori permanenti definiti “un’officina creativa”, dove i detenuti hanno l’opportunità di sperimentare diverse forme di comunicazione artistica nelle loro interazioni possibili. Le differenti discipline sono unite da un tema e da un confronto-scambio continuo. Il risultato del percorso confluisce sempre nella messa in scena di uno spettacolo aperto al pubblico, dentro e fuori le mura carcerarie.
Tra questi, da ricordare gli allestimenti scespiriani Giulio Cesare e Amleto, e la più recente Trilogia dell’Assedio, progetto drammaturgico in tre episodi (in prima assoluta al Teatro delle Passioni di Modena, in collaborazione con Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale), che comprende Edipo Re da Sofocle, Sette contro Tebe da Eschilo, e Antigone da Sofocle.
Ne parliamo col regista Stefano Tè.

Da cosa nasce l’idea, il progetto, di lavorare sulla tragedia greca, sulla mitologia? Come è stato il lavoro di approfondimento, studio, approccio, creazione, con gli attori-detenuti?
«L’idea di lavorare sulla tragedia greca nasce da un’esigenza di affrontare temi universali e archetipici, presenti nella mitologia, che risuonano profondamente anche nel contesto carcerario. La tragedia greca offre un terreno fertile per l’esplorazione umana. Il lavoro con gli attori-detenuti è stato come sempre caratterizzato da un processo di scoperta reciproca. Esercizi ed esperimenti per la messa in scena hanno preso vita grazie a stralci di testo e riflessioni. Spunti e suggestioni che a partire dalle opere di riferimento hanno alimentato un processo di confronto, scambio, scontro, che ha influenzato sicuramente il risultato finale. Fondamentale è stata la pratica di allontanamento e accettazione del contesto carcere nel lavoro. Il dolore, tanto presente in questo periodo particolare, è stato gestito, modellato e custodito a servizio dell’opera e quindi per gli attori, le attrici e il contesto stesso».
Il tema dell’assedio che lega le tre opere – l’assedio del potere, quello del destino, della guerra – che significato ha avuto e ha per persone recluse? Cosa ha suscitato in loro? Quali riflessioni condivise?
«Il tema dell’assedio ha assunto un significato particolarmente potente per le persone recluse. Come sempre abbiamo però evitato un approccio diretto, che affronta in maniera esplicita la condizione di isolamento dei detenuti e il loro dolore. Abbiamo lasciato che le opere originali andassero a condizionare in maniera apparentemente involontaria reazioni e riscontri, ritorni in forma di composizione teatrale, che evidentemente andavano a nutrirsi di un contatto tra opera e vita, senza però passare da un confronto esplicito. Esiste una determinata tecnica che in questi anni abbiamo nutrito di esperienza, che tende ad affidare al teatro, alle opere che affrontiamo, il compito di alimentare accostamenti tra testi e storie dei singoli. La riteniamo una pratica rispettosa e sana».
Tagli, riscrittura, e ricomposizione delle tre opere, con il personaggio di Tiresia, che le attraversa tutte. Da cosa nasce questa scelta di Tiresia quale fulcro e legame, di cui ascoltiamo solo la voce e vediamo solo le mani?
«La scelta di Tiresia come fulcro e legame tra le tre opere nasce dalla sua figura di veggente, di testimone del passato, del presente e del futuro. Tiresia, pur essendo cieco, “vede” più degli altri, conosce la verità, ma è spesso inascoltato. La sua voce, che sentiamo, e le sue mani, che vediamo, diventano simboli di una saggezza che non si manifesta attraverso l’apparenza, ma attraverso l’interiorità e le visioni che dal buio nascono. La riscrittura e la ricomposizione delle opere sono state necessarie per adattarle al contemporaneo, per renderle vicine a noi, a chi racconta e chi ascolta. Azzurra D’Agostino ha voluto costruire un legame poetico e concreto tra gli interpreti e gli spettatori, un raccordo tra l’opera e il tempo presente».

Per ciascuna delle tre tragedie l’intervento musicale è connotato da tre diverse composizioni e strumenti. Sono paesaggi sonori che determinano il climax delle singole storie. Come avete lavorato con i compositori per la drammaturgia musicale?
«La drammaturgia musicale è stata parte integrante del progetto fin dall’inizio. La collaborazione con i compositori è stata stretta e continua. Si è partiti da un’analisi dei testi, delle atmosfere, dei personaggi, per individuare i paesaggi sonori più adatti a ciascuna tragedia. La musica è stata concepita come un elemento drammaturgico a tutti gli effetti, capace di creare contesti, cambi di luogo e tempo, quindi non sottofondo o ambiente, ma azione reale, capace di indicare e condizionare».
Altri spettacoli importanti sono stati quelli della trilogia shakespeariana sviluppatasi nell’arco del biennio 2022/23: Amleto, il podcast Macbeth alla radio costruito con le voci degli attori e delle attrici degli istituti penitenziari di Modena e Castelfranco, e Giulio Cesare. Che esperienza è stata?
«La trilogia shakespeariana è stata un’altra importante tappa del percorso del Teatro dei Venti. Amleto, Macbeth e Giulio Cesare hanno permesso di esplorare altri grandi classici del teatro, affrontando temi come il potere, l’ambizione, la vendetta, la follia. Il progetto “Macbeth” in forma di podcast radiofonico è stato particolarmente innovativo, permettendo di raggiungere un pubblico più ampio e di sperimentare un linguaggio diverso».

Sarebbe bello poter sentire direttamente da ciascuno di loro, specie da quelli che da più tempo lavorano con te, con voi del TDV, a questa esperienza umana e artistica, cosa ha determinato nella loro vita l’essersi aperti al teatro, alla letteratura, al dare corpo e voce a personaggi e storie così lontane, prima, dal loro vissuto…
«È estremamente complesso comprendere fino in fondo come il teatro va ad agire e a condizionare vite e destini di persone che vivono un periodo di reclusione. Si accostano due contesti extra quotidiani, anomali. Si incontrano due difformità del reale che a volte, misteriosamente, portano ad una reazione teatralmente efficace, vera. Ci sono esperienze raccolte in questi anni che portano ad immaginare ritorni positivi sulle persone che si avvicinano al teatro durante il periodo di reclusione. Può nascere il fraintendimento di una vita nel teatro, ci si può illudere che il teatro possa essere una vera e propria attività lavorativa, per tutti, ma anche qui cerchiamo di operare con estrema franchezza. Cerchiamo di orientare l’esperienza al meglio, evitando questo fraintendimento. Comprendere il teatro può essere una maniera per comprendere la vita? Non lo so. Ci sto lavorando».
Puoi dire qualcosa riguardo al rapporto che in questi anni e nelle diverse situazioni, si è creato con l’esterno, con gli spettatori? Che tipo di reciprocità, di condivisione, di ascolto?
«Il rapporto con l’esterno è fondamentale per il Teatro dei Venti, soprattutto perché si muove su più livelli. Certamente su quello artistico ma non si può escludere il livello umano, sociale e politico. Negli anni si è creato certamente un legame tra gli spettatori, che ormai attendono di incontrare gli attori detenuti del Teatro di Venti, non solo per un incontro tramite il teatro, ma per continuare a testare e a confermare una modalità possibile di contatto tra il carcere e l’esterno.
Ogni volta che si compie uno spettacolo all’interno del carcere o all’esterno, dove è possibile far incontrare l’interno e l’esterno, gli spettatori si presentano per assistere e per confermare, per testimoniare un avvenimento. Esistono poi dei rischi dal punto di vista artistico. Di certo gli spettatori sono condizionati dal contesto carcere. Questo condizionamento può danneggiare il teatro, non aiutarlo. Vorrei vi fosse sempre un rapporto leale. Anche su questo stiamo lavorando».

TdV compie 20 anni. Un presidio importante cresciuto e maturato negli anni con due spazi teatrali dentro il carcere dove gran parte degli spettacoli nascono e si svolgono in carcere. Cosa è cambiato nel corso di due decenni?
«In 20 anni, il Teatro dei Venti è diventando un presidio culturale importante per il territorio. Ciò che è attualmente il Teatro dei Venti si avvicina molto alla nostra idea di teatro. Affrontiamo difficoltà enormi, come tanti, ma cerchiamo di essere coerenti. Di essere il teatro che vogliamo essere. La nostra presenza nelle carceri sicuramente fa parte del nostro modo di intendere il teatro nella società. La creazione di spazi teatrali all’interno di entrambi gli Istituti Penitenziari ha permesso di radicare il lavoro dei gruppi, di creare una identità e un ambiente stabile, protetto per noi e gli attori detenuti. Un luogo, un progetto nel carcere, nel contesto, ma contemporaneamente fuori dal contesto. Un luogo che dipende dal contesto, che ci dialoga, ma che lo nega. Si alimenta dal contesto e lo respinge».
Quali sono stati e sono tuttora le difficoltà, e quali le conquiste?
«Le difficoltà sono state e sono tuttora molteplici: le resistenze burocratiche, le difficoltà logistiche, la precarietà dei finanziamenti. Teatro e carcere sono due mondi opposti, che confliggono per natura. Per poter esistere davvero il teatro deve tendere verso l’inaspettato, l’inespresso, l’instabile. Deve prendersi cura del dialogo misterioso che c’è tra il desiderio di mettere in scena un’opera e l’opera stessa che chiede ascolto, che ribalta decisioni prese, che chiede di essere continuamente smarriti. Condividere questo approccio con un mondo fatto di regole rigide, di decisioni prestabilite, di tempi definiti, è estremamente complesso, ma possibile. Credo fortemente che lì dove è possibile un dialogo leale tra teatro e carcere è possibile il cambiamento stesso del carcere».

Cosa ti motiva, umanamente e artisticamente, ancora oggi a proseguire in questo lavoro?
«La motivazione reale è misteriosa. Probabilmente sono motivato a proseguire nonostante le tante difficoltà, perché umano e artistico tendono dalla stessa parte. Forse perché l’identità che il Teatro dei Venti assume lavorando in carcere, coincide con la mia identità umana e artistica. Il teatro a mio avviso è un’esperienza intensa, radicale. Il carcere è un luogo dove l’umanità è messo alla prova continuamente. In questa combinazione tre umano, teatro e carcere c’è forse la motivazione».
Sfide e progetti futuri?
«Esistono due desideri contrastanti, ma profondamente legati. Quello di consolidare e approfondire ciò che è stato fatto, radicare gli approdi. Allo stesso tempo c’è una forza che tende all’essere temerari verso qualcosa che non si sa, verso nuove sfide. Quindi da una parte la sfida è approfondire, dall’altra è scoprire, ma i due aspetti possono coincidere.
I progetti futuri potranno essere efficaci se terranno fede alla natura fondante del Teatro dei Venti. Farsi carico di sfide nuove con una maturità diversa. Essere erranti maturi. Vorremmo ad esempio che il teatro all’interno delle carceri divenisse un’istituzione certa. Un punto fermo che non dipende dalla comprensione, dalla bontà d’animo, dalla caparbietà degli operatori delle carceri, ma da un sistema che valorizza e tutela il teatro in carcere. Ma di pari passo nei nostri progetti futuri c’è senza dubbio un raggiungimento di una ancora più nitida identità artistica. Consapevoli che sarà una ricerca infinita».