Dal 16 al 21 aprile il Vascello di Roma ospita La ragazza sul divano, del Premio Nobel Jon Fosse, per la regia di Valerio Binasco. In scena Pamela Villoresi, Valerio Binasco, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Fabrizio Contri, Giulia Chiaramonte e con Isabella Ferrari. A proposito del cast, Valerio Binasco dice: «Una musica come questa vuole essere suonata da grandi interpreti. Ecco perché ho voluto con me questi attori». E una di loro è Giordana Faggiano. Diplomata alla Scuola di Recitazione del Teatro Nazionale di Genova, sul set è stata diretta da registi come Roberto Andò (La stranezza), Maria Sole Tognazzi, Cinzia TH Torrini, Roan Johnson. L’abbiamo raggiunta per farci dire di più sulla sua carriera, sulla formazione, sullo spettacolo e sulla situazione del teatro in Italia.
Giordana Faggiano a scuola: che tipa era?
«Aveva le trecce, la fascia in testa e vestiva sempre in tuta. Non sono mai stata la reginetta della scuola, anzi. Guardavo chi era così con grande ammirazione. Spesso sono stata presa in giro. Ero molto simpatica, ma nessuno si immaginava che potessi essere altro fuorché la classica amicona. Alle medie ne ho sofferto. I miei coetanei iniziavano ad avere i primi fidanzatini, si iniziavano a fare le prime marachelle. Io no. Ma sono contenta anche di aver vissuto quella fase di vita un po’ a disagio. I ragazzini che ora vanno alle medie sembrano più grandi di me. E sento che stanno bruciando delle tappe fondamentali della crescita: la scoperta, il mistero, il cambiamento, la consapevolezza di sé. Ora è tutto troppo veloce. Peccato».
E in famiglia?
«Sono una figlia unica con due fratelli. Siamo in cinque: i miei genitori, io e i miei due fratelli. Ho iniziato a recitare a sette anni, dividendomi tra casa, scuola e teatro. Sin da piccola facevo seminari che mi portavano lontana anche per mesi. Con i miei fratelli litigavamo spesso, anche per cavolate. Diciamo che sono sempre stata molto ribelle, a tratti antipatica. Per fortuna i miei mi hanno sempre capita, a volte ridimensionata. Per quanto mi è possibile, cerco di passare tutto il tempo libero con loro».
Diplomata allo Stabile di Genova, quando hai deciso di voler scommettere su questa carriera?
«Ci siamo spostati tanto per via del lavoro di mio padre. Da Bari a Livorno a La Spezia e, infine, a Genova. Vicino casa c’era una scuola di recitazione per bambini. Sono cresciuta lì. E non ho mai più smesso. Ho sempre sentito che era la mia strada, non tanto per i risultati, quanto per una enorme, inspiegabile urgenza che avevo e che mi divorava. Ho sempre messo la recitazione davanti a tutto. Forse è stata più questa carriera che ha scommesso su di me. Io ho solo seguito la strada».
Cinema e tv pagano, il teatro no. Eppure continui a tornare sulle tavole del palcoscenico. Cosa ti spinge a “tornare a casa”?
«È vero, il cinema paga di più. Ma in questi ultimi anni, per i progetti cinematografici, cercano spesso volti nuovi: vedo le call dei provini che dicono “anche senza esperienza”. Non avere esperienza, nel cinema, va anche bene, ma non sempre.
Sono un attrice, ho studiato, continuo a farlo. A volte mi dicono che sono troppo consapevole oppure troppo brava. Che cosa vorrà dire poi… Io continuo a studiare teatro perché la consapevolezza è quella che mi serve per stare su un palco. Il teatro non perdona. Non hai possibilità di rifare un altro take: o va o non va. In teatro mi sento libera: libera di sbagliare, di entrare in crisi e di affrontarla senza dover rendere conto a una macchina da presa. Per questo continuo a farlo. Perché il suo rischio è talmente alto che è sempre sorprendente, anche in negativo. E non c’è cachet o paga che tenga».
Il personaggio più complesso che hai interpretato?
«Tutti i personaggi che ho fatto sono complessi. I personaggi sono essere umani e conoscerli fino in fondo richiede ascolto. Un ruolo che mi ha dato filo da torcere è la Figliastra, dei Sei Personaggi in centra d’Autore, con la regia di Valerio Binasco. La Figliastra, oltre ad essere un personaggio molto emotivo, perché ferito dal dramma della sua famiglia, è un ruolo che, per il modo in cui è stato scritto, richiede che l’attrice sia consapevole che c’è una caratteristica esclusivamente perfomativa: la Figliastra per tutto il tempo ride. Ride stando male. Ride mentre piange. Ride mentre urla. Quello è uno di quei ruoli che non si riescono mai a padroneggiare fino in fondo, perché sono loro a padroneggiare l’attore. E forse bisogna fare così: lasciarsi sopraffare dalla grandezza di questo ruolo, che ho odiato e amato allo stesso tempo».
Sei in tournée con La ragazza sul divano di Jon Fosse insieme a un cast di attori esperti. Una volta, quando gli spettacoli giravano per mesi e mesi, era normale. Oggi un’eccezione. Che esperienza è vivere periodi di convivenza con tanti attori?
«Sono molto fortunata. C’è stata da subito sintonia e armonia. La tournée è faticosa, ma unisce. Alla fine si diventa parte di una comunità, di una tribù».
Cosa ti ha colpito di questo spettacolo e del tuo ruolo?
«La drammaturgia. Jon fosse è un drammaturgo anomalo, per quello che siamo abituati a vedere in Italia. La sua drammaturgia è fatta di silenzi, di parole non dette, di disperazione silenziata. Per questo può risultare di difficile comprensione. Ma è una drammaturgia straordinaria e sorprendente. Personaggi molto poco personaggi, dialoghi che sono balbettii, silenzi e pause, storie che non sono proprio storie e ambienti che sconfinano nell’astrattezza e nella rarefazione del sogno. La sua continua tensione drammatica aggancia l’attenzione e l’emozione di chi osserva. Pur non potendo parlare di storie, alla fine di ogni suo testo resta comunque il sapore di una storia. Pur non potendo parlare di personaggi, i corpi che animano queste azioni-non azioni hanno un peso specifico importante e straziante.
Il mio ruolo è quello de “la ragazza”. È un ruolo compresso. La ragazza vive costantemente con la speranza che suo padre, marinaio imbarcato da tanto tempo, torni a casa e ricostituisca una famiglia che pian piano si sta sgretolando. Questa speranza si è trasformata in una forma di depressione che la porta a stare tutto il giorno seduta su un divano, incapace di fare niente».
Eri tra i protagonisti del film State a casa di Roan Johnson. C’è un’ingenuità crudele nei personaggi di quel film. Cosa hai pensato quando ti è stato proposto il copione?
«È un ruolo per il quale ho fatto ben quattro provini. Ho capito subito che era un ruolo giusto per me. La scrittura di Roan Johnson non è semplice. I suoi personaggi sono complessi, parlano tanto, dicono cose per dirne altre. Quando ho finalmente letto il copione, ho pensato che fosse un testo geniale. Ogni cinque pagine c’era un colpo di scena. Credo che la genialità di Roan sia nello stupire costantemente lo spettatore. I personaggi cambiano e l’attore sa che dovrà affrontare un personaggio fatto di sfumature e di incoerenze tipiche dell’essere umano. Roan è molto poco italiano. Il suo humor è british, di nicchia e per questo, forse, non riesce ad essere capito da tutti. Ma certi tipi di cinema non sono per tutti».
Accademie vs corsi con coach. Per alcuni la scuola leva spontaneità alla recitazione. Hai sperimentato tutti i media: teatro, cinema, televisione. Se iniziassi da capo, rifaresti al stessa strada?
«Credo che la formazione sia necessaria. Io non smetto mai. Quando posso, vado a Londra a vedere spettacoli. Leggo testi, faccio seminari. Ultimamente va di moda pensare che lo studio rovini. Dipende quale studio e con chi. Purtroppo, e mi dispiace dirlo, è sempre più difficile trovare un percorso di formazione che sia valido, comprese le accademie nazionali. Tutti si improvvisano coach, insegnanti, rappresentati di un metodo. Anche dire sono un attore è di moda. Credo che la migliore formazione che si possa dare a un attore sia quella tecnica, che gli permetterà poi di poter gestire il proprio strumento come vuole. Senza la tecnica non si va da nessuna parte. A un certo punto, anche agli attori che vengono “dalla strada” verrà chiesto di fare un salto qualitativo, perché la spontaneità non basterà più. Io ho fiducia nel talento, ma credo anche che il talento vada protetto e coltivato. Ci sono insegnanti che hanno bisogno di sentirsi ammirati e di creare negli allievi una sorta di sentimento di riconoscenza. E per me è dannoso. È invece importante trovare dei punti di riferimento, che amano ciò che fanno e amano tramandarlo per far crescere in autonomia i giovani attori.
Quindi sì, rifarei la stessa strada e consiglierei, a chiunque voglia fare l’attore, di continuare a formarsi, sempre».
Lo scorso anno per Sei personaggi in cerca d’autore hai vinto il premio Migliore Attrice Emergente al Premio Le Maschere Del Teatro Italiano, dove eri già stata candidata per due tragedie greche. Sempre diretta da Binasco. Che maestro è stato? Che sfide hai affrontato con lui e grazie ai suoi strumenti?
«Valerio non si definisce un maestro. Per me è ed è stato fondamentale. Mi ha permesso di mettere a fuoco ciò che conoscevo di me e, soprattutto, quello che di me non conoscevo. Non mi ha mai chiesto la stessa cosa. Mi ha sempre mostrato una strada molto lontana da me. Credo sia questo il suo grande dono. Riesce a mostrarti una strada alternativa sempre più efficace.
Col passare degli anni e degli spettacoli fatti insieme, che ad oggi sono undici, credo di aver sviluppato una grandissima autonomia tanto che, per Sei Personaggi e La ragazza sul divano, gli ho proposto di non darmi più indicazioni e di lasciarmi costruire, nel rispetto della sua regia, il mio personaggio. Gli sono grata per questa fiducia».
La volta che hai detto: non ce la farò mai?
«Tutte! Tutte le volte non mi sento all’altezza. Forse perché sono ambiziosa e non voglio fare cose che so già fare. Non conosco comfort zone. I territori in cui mi piace stare sono sempre pericolosi e fragili. È una condizione che odio e amo allo stesso tempo».
Un ruolo che ti hanno offerto che non pensavi fosse nelle tue corde?
«Quello di una giovane madre, Sara, nella serie Citadel-Diana, prodotta da Prime-Video e dai fratelli Russo, che uscirà a Ottobre sulla piattaforma. Protagonista è Matilda De Angelis. Io interpreto sua sorella. Una madre legata alla sua famiglia che ha paura del mondo in cui sta vivendo. Per il momento non posso spoilerare altro, ma non mi era capitato mai di gestire un ruolo di madre e mi ha sorpreso saper gestire anche un ruolo del genere, lontano da quello che avevo sempre fatto».
Un obiettivo?
«Quello di poter continuare a fare questo mestiere continuando a formarmi. Il successo non è fondamentale, anzi. Vorrei soltanto che il teatro fosse per me il mezzo con cui poter accedere con più facilità a ruoli cinematografici interessanti. Il teatro dice tanto di noi come attori, ti mette a nudo. Ho l’idea romantica che un giorno un regista venga a vedere un mio spettacolo, si sieda in platea, e alla fine pensi: voglio quella ragazza come protagonista del mio film. È già successo, ma mai come me lo immagino io. Per il momento mi godo la fortuna di poter fare questo lavoro».
Roberto Andò, Maria Sole Tognazzi: che esperienze sono state?
«Con Roberto Andò ho girato uno dei ruoli che mi hanno divertita di più. Innanzitutto, la Stranezza è un film in costume e io amo i costumi d’epoca. Il ruolo, anche lì, era La Figliastra dei Sei Personaggi in cerca d’Autore. Una curiosa e magica coincidenza! Di quel film ho amato che Andò sia riuscito a raccontare il teatro attraverso il cinema. Abbiamo girato gran parte delle scene al Teatro Valle di Roma ed è stato emozionante e commovente. Gli sarò sempre grata per questa enorme opportunità. Con Maria Sole Tognazzi ho girato un piccolissimo ruolo in Petra, la serie su Sky».
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