Sono le note di una viola, suonate dal vivo da Irida Gjergji, a squarciare il buio iniziale e a suggerire le atmosfere dell’intera rappresentazione. Per tutto il tempo si rimane vigili con lo sguardo, presi da un magnetico concerto di corpi determinati, presenze ben stagliate sulla scena, che nel loro asciutto incedere, parlare, esserci, fanno risaltare la lingua alta di Shakespeare. Si affermano con chiarezza di posture, di voci dai diversi accenti nazionali, muovendosi appena sulla rialzata pedana posta al centro delle due platee frontali che accolgono gli spettatori. Siamo dentro una sala del carcere Sant’Anna di Modena a condividere con gli attori-detenuti il risultato finale di un lungo lavoro avviato da Stefano Te e il Teatro dei Venti intorno alla messinscena della tragedia del “Giulio Cesare”.
Si tratta del primo capitolo di una trilogia shakespeariana che si concluderà a dicembre, attività del Teatro dei Venti all’interno dei progetti teatrali nella Casa Circondariale di Modena e nella Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, gruppo teatrale modenese vincitore del bando di Creative Europe, che coinvolgerà per 30 mesi organizzazioni e Istituti Penitenziari di cinque Paesi europei e uno della Serbia. Il lavoro artistico del Teatro dei Venti si inserisce in quell’esperienza di teatro in carcere ormai presente in molti altri luoghi quale forte strumento di emancipazione per gli attori-detenuti, attività che, quando è guidata da una corretta metodologia artistica crea indirettamente una situazione pedagogica coinvolgente che arricchisce la cura e la stima della persona, la salute mentale e corporea, la propria esperienza cognitiva.
Si muove un’intera comunità in questa ricerca umana e artistica del Teatro dei Venti, un percorso creativo scaturito, nella messinscena del “Giulio Cesare”, in un’emozionante riflessione incentrata sull’uomo e sulla natura umana. Tradimento, ricerca di potere, vendetta, alcuni dei temi. Il regista scarnifica il gran testo classico, lo traduce in una discussione sul potere, in rifiuto del culto della personalità, in ricerca d’una giustizia incompresa, così come conflittuale e ostinato era il clima creatosi nella Roma di Giulio Cesare. Riducendo il numero dei personaggi vengono posti al centro del lavoro l’azione, le passioni e le emozioni di ogni singola figura dei congiurati che assassinano Cesare. Tra questi Bruto, considerato protagonista con le sue tormentose incertezze davanti a un omicidio rifiutato dall’affetto ma imposto da una coscienza democratica, pronto a mediare e cercare una misura tra fedeltà e congiura; e Antonio abile politico.
C’è tutta quella radicale riflessione scespiriana sul potere e la violenza con uomini travolti dall’invidia, vinti dalle certezze, contagiati dalla crudeltà e dal caos, presi da una tensione insopportabile che può placarsi solo con la morte. La rabbia e lo spazio dell’insurrezione, dopo l’apparizione iniziale dell’indovino che profetizza a Cesare il pericolo delle Idi di marzo, e la velocità degli eventi che seguiranno, diventano una poetica comunicativa risorsa del dire anziché del conclamare, con protagonisti solo Bruto, Cassio, Antonio, Casca, Calpurnia appena accennata (la violinista Gjergji che poggia il capo sul petto di Cesare e pronuncia poche parole), e alcuni uomini del popolo. Quest’ultimi sono un coro prima muto, massa anonima in ascolto, poi rivoltosa, quindi trasformata in esercito nella battaglia di Filippi resa con un concitato e battente scorrere degli attori che via via, plasticamente si accasciano a terra.
I personaggi indossano lunghe tuniche nere che rimandano ai costumi marziali giapponesi, tutta rossa per Marco Antonio, camicia bianca e gonna nera per il coro, bianca e rossa per il corpulento e massiccio Cesare, presenza silenziosa prima fieramente in piedi, poi seduto sul suo trono, infine accasciato a terra nell’imboscata che lo ucciderà. Accanto al suo corpo ascolteremo l’oratoria di Marco Antonio per l’amico compianto, una delle grandi scene scespiriane in cui si fonde il meccanismo del cuore umano insieme a quello del potere. A dirla, con padronanza di toni, Dario Garofalo, unico attore professionista.
Tutti bravi gli undici attori/detenuti, pienamente dentro nella ricerca della verità attraverso la finzione, per trovare, e anche noi con loro, qualcosa di sé stessi nelle parole di Shakespeare. Parole divenute più vicine grazie alla sapiente mano registica di Stefano Te dalla forte tensione etica ed estetica, con alcuni momenti di vero lirismo poetico.
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