Vangelo, ph Andrea Avezzù, courtesy La Biennale di Venezia
C’è la sapienza di una drammaturgia, e di una regia, che amalgama con giudizio la staticità di tre voci recitanti, la sonorità di un coro di canti gregoriani e di altre risonanze acustiche, la visione di immagini in movimento proiettate sulle pareti. E c’è un luogo, il Portego delle colonne della Scuola Grande di San Marco a Venezia, l’atrio del monumentale complesso cinquecentesco noto come Ospedale Civile SS. Giovanni e Paolo, che accoglie ed esalta tutto questo. Qui, nel luogo per definizione destinato alla cura del corpo, si aggiunge quella dello spirito, balsamo per l’anima.
Siamo ad ascoltare parole lontane nel tempo, eppure sempre vicine se ricondotte all’umana esistenza, la cui forza ed eco possono risuonare ancora oggi. Sono brani del Vangelo di San Giovanni tratti dall’Expositio Sancti Evangeli secundum Iohannem del teologo domenicano, filosofo e mistico sassone Meister Eckhart, un progetto speciale dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia. Presentato in forma scenica e in più serate, si dipana sui diversi temi dell’Expositio con l’intervento iniziale, come prologo, affidato a uno scrittore o a un filosofo la cui riflessione si incastona poi nei brani del Commento, interpretati in parte nel latino originale.
Definito Lebemeister oltre che Lesemeister (maestro di vita non solo di cultura e di pensiero), Meister Eckhart, pseudonimo di Eckhart von Hochheim (1260-1328 ca.), difendendo il primato della ragione che si fa spirito, interpreta la Scrittura – i suoi testi più importanti sono i libri veterotestamentari – in modo che essa sia sempre in accordo con la filosofia classica. Il testo giovanneo permette al magister di sviluppare appieno la sua dottrina mistica fondamentale: la generazione del Logos nell’anima dell’uomo completamente distaccato, che diviene così uomo divino, come il Figlio.
Nell’immersiva mise en espace, osserviamo al centro della sala una pedana circondata dal pubblico, e chiusa da un velo trasparente contenente tre figure di officianti rigorosi della Parola sacra – gli attori Federica Fracassi, Dario Aita e Leda Kreider – posizionati con tre leggii. Dietro agli spettatori, distribuito in due diverse postazioni è posizionato il Coro della Cappella Marciana impegnato nel canto gregoriano sui testi liturgici del vangelo giovanneo. Le parole sacre, mistiche, critiche di Eckhart, risuonano potenti nel loro luminoso significato, che, nel percorso rappresentato in scena, va dal Logos, ossia la ricerca di una verità illuminata, all’Essere, inteso come uno e molteplice (Padre, Figlio, Spirito Santo), abbracciando anche la figura dell’uomo giusto; dall’Amore quale forza generatrice di vita, di verità e bene, fino alla dialettica anima/corpo.
Tutto parte dall’incipit In principio era il Verbo cui Meister Eckhart dedica gran parte del suo Commento destinato a infinite interpretazioni. «Bene/male: non c’è una coppia di concetti più impropri rispetto al pensiero di Meister Eckhart, ma forse proprio per questo non c’è una chiave più giusta per interrogare quel pensiero, per capire che cosa quel pensiero ha da dire a noi, oggi». Così la grecista e filologa Monica Centanni introduce una delle cinque diverse serate con la sua articolata e profonda riflessione sul tema.
E suscitando in noi la domanda: Che cosa ci può dire Meister Eckhart oggi? Perché è necessario ascoltarlo? Non solo per una questione religiosa, ma anche perché le parole interrogano il significato del bene e del male, e ci ricordano la necessità di un confronto.
Lo spettacolo è un dramma ai nostri occhi, agli occhi di noi uomini troppo moderni per pensare, troppo stanchi per immaginare, troppo avari di sé, immobili verso il prossimo. Meister Eckhart ci offre un’occasione per la mente e per l’anima, e lo spettacolo ce la getta addosso con veemenza, dicendoci di svegliarci, di riflettere sul bene, su Dio e su chi lo segue. E “Sequere me”, è l’invito ripetuto più volte dalle tre voci.
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