La Manica Lunga rappresenta il secondo nucleo monumentale della residenza sabauda di Rivoli; l’edificio è di per sé insolito: una costruzione di tre piani di forma oblunga a cui il restauro di Andrea Bruno, recentemente conclusosi, pur rispettando la parte storica, ha aggiunto elementi architettonici contemporanei. Il terzo piano è stupefacente nella sua semplicità e linearità: un unico spazio, di ben 140 metri di lunghezza per 7 di larghezza, forma un’ampia galleria, simile ad una navata di chiesa romanica, ornata in entrambi i lati della sua estensione da grandi finestre; l’inusuale conformazione si deve alla sua destinazione originaria a Pinacoteca per ospitare le collezioni di Carlo Emanuele I. L’odierna designazione espositiva rappresenta, quindi, un interessante caso di ripristino della funzione seicentesca originaria della galleria, irriconoscibile dopo i disastrosi interventi eseguiti a partire dall’Ottocento per ospitarvi la guarnigione militare ed ora riportata in auge quale sede di mostre temporanee.
In concomitanza con l’apertura della Manica Lunga, il Castello di Rivoli inaugura “Progetto”, una sezione destinata a proporre figure emergenti della nuova scena artistica internazionale. Progetto si struttura in una serie di installazioni a cadenza trimestrale, affiancandosi alla Collezione Permanente e alle mostre collettive e personali quale programma espositivo più agile. Le installazioni, ospitate al primo piano della Manica Lunga, saranno incentrate su una scelta mirata di nuovi lavori o presenteranno un’unica opera, concepita specificamente per lo spazio di Rivoli, in modo da rappresentare al meglio la sfera di indagine dell’artista. Mantenendo il respiro internazionale che caratterizza le attività del Museo, Progetto presenta installazioni di artisti sia italiani che stranieri. “Progetto – spiega Marcella Beccaria, curatore della serie- riflette il bisogno di un museo d’arte contemporanea di aggiornarsi continuamente, tenendo il passo con la naturale evoluzione, anche generazionale, dell’arte”.
La serie si apre con Olafur Eliasson, nato in Danimarca nel 1967, che, per la sua prima installazione appositamente concepita per un museo italiano, ha interpretato lo spazio architettonico come “un punto di vista”, intervenendo sullo spazio quasi fosse una camera oscura, in maniera da permettere ai visitatori di sperimentare una particolare visione che è un’esperienza ottica, ma anche fisica.
Eliasson è stato invitato a numerose rassegne collettive internazionali in Europa, negli Stati Uniti, in Israele, in Australia e in Brasile, oltre ad aver realizzato progetti specifici per spazi come la Kunsthalle di Brema e la Biennale di Johannesburg; sarà presente alla Biennale di Venezia.
“Utilizzando una tecnologia sostanzialmente semplice, -racconta Marcella Beccaria- Eliasson esplora le possibilità della percezione umana, crea spazi capaci di indurre forti emozioni nei visitatori, produce un’arte dove l’oggetto è pressoché assente: le sue installazioni pongono gli spettatori al centro di una determinata situazione, in modo da suscitare reazioni soggettive e individuali.”
Helmut Newton è famoso in tutto il mondo per le sue fotografie di moda e per i suoi nudi, ma ciò che fa di Newton un indiscusso maestro della fotografia contemporanea è la ricerca che ha sviluppato sul concetto di “guardare” e sul rapporto tra soggetto – spazio – tempo nella ripresa fotografica. Questi elementi compaiono anche nelle fotografie di edifici e di esterni, meno conosciute al grande pubblico.
Per il Castello di Rivoli Newton ha espressamente realizzato una serie di immagini che hanno come soggetto la Manica Lunga, la nuova ala del museo: otto di queste, stampate in grande formato, sono esposte nella Sala Polivalente. L’artista ha eseguito le riprese nel momento in cui i restauri si stavano ultimando ed ha utilizzato come modelli, oltre al personale del Castello, circa 400 ragazze e ragazzi del Liceo Scientifico Statale Darwin di Rivoli tutti vestiti di nero. Newton li ha ritratti in gruppo in una serie di fotografie dove essi svolgono il ruolo di visitatori. Due di queste sono esposte in mostra; in una i ragazzi sono raffigurati nello spazio espositivo della Manica Lunga mentre visitano una mostra “virtuale”, dal momento che alle pareti non vi sono opere e la nostra attenzione è attirata dall’atto del “guardare” di questi visitatori.
Un nucleo di quattro immagini ritrae il complesso architettonico, in esterno ed in interno, senza alcuna presenza umana. Un’assenza che volutamente sottolinea l’atemporalità dell’edificio, in cui il passato (la pinacoteca sabauda) si incontra con la contemporaneità (la nuova ala che ospiterà l’arte del nostro tempo). L’uso del bianco – nero intenso, a volte esasperato, svolge un ruolo dominante, creando forme geometriche che, interagendo con i volumi dell’edificio, creano un’aura metafisica. L’edificio si pone al di fuori del tempo: solo in un’immagine una presenza nascosta, quasi casuale, passando, ci introduce alla serie successiva in cui il fotografo utilizza i modelli.
La collezione permanente del museo è un caso a sé nel panorama museale internazionale in quanto oltre a presentare lavori, sia di grandi maestri sia di esponenti delle più recenti tendenze, permette di ammirare opere e grandi installazioni realizzate espressamente dagli artisti per gli spazi del Castello. Il Castello di Rivoli ha iniziato la propria Collezione Permanente nel 1984, anno in cui il Museo d’Arte Contemporanea è stato inaugurato; la collezione è composta da oltre trecento opere fra dipinti, sculture, installazioni e fotografie. Con l’apertura dello spazio espositivo della Manica Lunga, si è reso possibile un nuovo allestimento: il pubblico ha ora modo di ammirare, in un percorso articolato al primo e al secondo piano, opere sino ad oggi esposte e le più recenti acquisizioni.
Il nuovo allestimento della raccolta è stato pensato come una mostra ed ha un andamento cronologico che inizia al primo piano e si conclude al secondo. Nel limite del possibile, questo andamento si struttura come una sequenza di sale personali, ciascuna dedicata ad un protagonista dell’arte contemporanea italiana e internazionale. Tra gli artisti presenti ricordiamo: Carla Accardi, Mario Merz, Robert Morris, Bruce Nauman, Dennis Oppenheim, Emilio Vedova, Maurizio Cattelan, Tony Cragg, Helmut Newton, Giulio Paolini, Grazia Toderi.
La mostra di Mona Hatoum è costituita da una selezione di dodici opere che coprono l’arco creativo dell’artista dalla metà degli anni Ottanta fino ad oggi.
Di origine palestinese, nata a Beirut nel 1952, Mona Hatoum ha studiato presso il Beirut University College fra il 1970 e il ’72; lo scoppio della guerra civile in Libano, avvenuto durante un suo viaggio a Londra, le impedì il ritorno in patria. Restata in Gran Bretagna, ha completato gli studi artistici e attualmente vive e lavora a Londra.
I suoi primi lavori non esitavano ad assumere espliciti significati politici, con particolare riferimento al conflitto medio-orientale, alla condizione della donna nel mondo islamico e alla lotta antirazzista. Dalla metà degli anni Novanta viene indicata come una delle figure più significative nel panorama artistico internazionale; nel 1995 è stata segnalata per il Turner Prize e ha partecipato alla Biennale di Venezia, a quella di Istanbul e ad altre mostre collettive quali ARS 95 alla Finnish National Gallery a Helsinki e Rites of Passage alla Tate Gallery di Londra.
“I lavori di Mona Hatoum -spiega Giorgio Verzotti- esprimono la condizione dell’apolide, di un individuo e di una comunità sottoposta all’esilio e alla diaspora”. La mostra si apre con Roadworks, opera che testimonia il lavoro svolto dall’artista nell’ambito della performance; nella prima sala della mostra sono quindi presentate le sculture degli Anni Novanta. Le opere, di diversi materiali, richiamano i mobili di arredo domestico, ma contengono anche elementi estranei, pericolosi: un lettino per bambini, per esempio, diventa uno strumento di morte a causa della sua base, costituita da taglienti fili di acciaio (Incommunicado, 1993); due tappeti sono interamente costruiti con spilli appuntiti (PrayerMat, 1995 e Pin Rug, 1999); una sedia a rotelle mostra in luogo delle maniglie atte a sospingerla vere lame di coltello (Untitled – Wheelchair, 1998). In queste opere si evidenzia la rabbia per l’uso di questi oggetti sia perché esistono, sia perché qualcuno li deve usare per colpa di qualcun altro, sia perché la società non riesce a impedire certe tragedie.
Nella seconda sala vengono esposti lavori più enigmatici ed altrettanto inquietanti, come un grande cubo nero (Sode du Monde, 1992-93, pensato come un omaggio a Piero Manzoni) o Present Tense, un pavimento fatto accostando cubi di sapone che rievoca i confini dello Stato Palestinese.
Il rapporto fra individuo e comunità, fra io e mondo, è espresso nell’opera più ampia che conclude la mostra, Map (1998). Un’enorme quantità di comuni biglie, disposta sul pavimento in modo da formare l’immagine dei continenti, è destinata a rotolare via dalla sua originaria posizione. In questo lento, ma inevitabile sfaldamento dei confini assume senso il lavoro che ironizza sulle demarcazioni e divisioni geopolitiche condizionanti, a volte pesantemente, l’esistenza degli esseri umani; e nei visitatori il pensiero non può non correre all’attuale guerra nell’ex Yugoslavia…
Enrica Borghi, nata nel 1966 a Premosello Chiovenda, vive e lavora a Novara; dopo gli studi all’Accademia di Belle Arti di Brera, nel 1992 ha iniziato l’attività espositiva, utilizzando come mezzo espressivo la fotografia o creando installazioni realizzate con materiali di scarto, tematica peculiare di questa fine di millennio. La sua ricerca artistica si incentra sull’uso di materiali di recupero attinti dall’universo femminile: sacchetti di plastica, unghie laccate, ciglia finte, bigodini. L’artista tramuta oggetti privi di valore, non solo economico, in materiali d’uso creativo, facendone scoprire un’insospettata qualità concettuale, funzionale ed estetica. L’attenzione per i materiali di recupero, intesi come prodotti delle storture del consumismo, e per la componente onirica del mondo femminile e domestico sono le tematiche a cui fa riferimento anche “La Regina, installazione per i bambini”, lavoro espressamente realizzato per il Castello di Rivoli.
La Regina è un lavoro realizzato utilizzando oltre cinquemila bottiglie di plastica scartate e un quantitativo non definibile di sacchetti di plastica: l’esito finale è un gigantesco abito-installazione (altezza quattro metri, diametro cinque metri, lunghezza otto metri), in cui gli scarti del consumismo divengono preziose stoffe, e che evoca, con la sua presenza misteriosa, il personaggio dell’iconografia fiabesca. L’abito si pone come tramite verso il mondo dell’onirico ed invita il pubblico a scoprire, fra le sue pieghe, itinerari segreti che dal mondo della fiaba possono condurre ai territori dell’io inconscio.
giuse ortali
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