Il curatore Andrea Busto insiste sul fatto che questa “non è una mostra su Gallizio, ma un evento che indaga lo stato dell’identità dell’Italia del primo dopo-guerra”. Le diverse sezioni che scandiscono lo spazio del Palazzo dei Congressi di Alba (finalmente riadibito a luogo espositivo) sottolineano questo approccio multiplo, idealisticamente teso a mettere in luce “lo spirito del tempo”. Oltre alle arti figurative, ci sono infatti sale dedicate al design, alla moda, all’architettura, alla fotografia e al cinema del decennio 1953-1964. Sono date significative per Gallizio -la sua carriera d’artista debutta nei primi anni Cinquanta e termina con la sua morte nel ’64-, ma anche storicamente, con la fine dell’impero di Stalin nel ’53 e l’inizio della crisi di Suez, della guerra d’Algeria e del Vietnam dopo il ’60.
L’approccio interdisciplinare della mostra si giustifica attraverso la figura proteiforme di Pinot Gallizio (1902-1964): chimico, politico, studioso di archeologia, etnologia e infine artista. Pinot è il fil rouge che rappresenta i caratteri contrastanti e gli innesti tra le diverse culture di un “decennio euforico-creativo in cui l’Italia si sprovincializza e, al tempo stesso, porta la provincia in Europa”.
La sezione dedicata alle arti figurative mostra senza alcun dubbio il carattere internazionale dell’operare dell’artista albese: una ricerca sulla materia, la sua energia e il suo segno, che accomuna, seppur nelle differenze, Alberto Burri (bellissimo il suo Sacco SF 1 del 1954), Mark Tobey o Asger Jorn. Interessante anche l’apporto di artisti minori, in gran parte anonimi, che lavorano la ceramica o la terracotta con grande libertà gestuale, in quella fucina di creatività che fu Albissola nei tardi anni Cinquanta.
Se il rapporto con le arti applicate, la moda e l’architettura appare coerente con l’idea di disegnare un panorama culturale comune ad un’epoca e frequentato da Gallizio (si pensi al “Gallizio-stilista” della pittura industriale e all’architetto-urbanista degli scavi archeologici e del progetto per i nomadi commissionato a Constant Nieuwenhuis), le sezioni dedicate al cinema e al design ci paiono meno contestualizzabili in quell’ottica doppia, territoriale e nazionale insieme. Se se è senz’altro difficile evitare di parlare di neorealismo tracciando un’identità dell’Italia culturale di quel decennio, è poco utile farlo per brevi accenni, con qualche fotografia, seppur eccezionale, che immortala Pasolini, Rossellini o Totò. “All’interno della mostra c’è una seconda monografia” , ci spiega Busto, “una delle sorprese più piacevoli di questo evento è indubbiamente la sezione fotografica dedicata a Federico Garolla, fotografo di 84 anni e attentissimo testimone di quell’epoca. Le sue novantotto fotografie che corredano l’allestimento sono una vera e propria mostra in sé”. Ed è proprio la qualità e l’intelligenza di quella testimonianza che ci lascia perplessi sul modo in cui se ne fa uso nella mostra di Alba. Da una parte, quelle immagini non bastano a raccontare il cinema e la fotografia degli anni Cinquanta (tanto più in un ambito attivo come quello piemontese) e, dall’altra, meriterebbero d’esser valorizzate con un allestimento più esclusivo e mirato.
Di fatto nel catalogo, l’indipendenza e la completezza di ogni sezione non sono soltanto rivendicate, ma anche assunte: gli interventi critici di studiosi di ogni settore permettono di mettere in luce e approfondire i valori comuni ad un’epoca, quel sottile zeitgeist che individuato nell’operare multiforme (“quasi rinascimentale”) di quel personaggio fuori dal comune che fu Pinot Gallizio.
emanuela genesio
mostra visitata il 15 febbraio 2007
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