Una strana alchimia invade la galleria dove l’opera site specific di Rolf Julius (Wilhelmshaven, 1939) si colloca perfettamente, frutto di uno studio dettagliato delle potenzialità spaziali circostanti. Il suo complesso lavoro installativo si compone di un’aggregazione di materiali disparati: lampade, tazze, pietre, terra, collegati a fonti sonore che “danno loro voce”.
Se Costantinos Kavafis, a ragion sua, poteva scrivere: “Il monotono giorno da un monotono identico giorno è seguito. Cose identiche si faranno e rifaranno nuovamente – momenti identici incombono e dileguano” (Monotonia), l’artista tedesco pare obiettare attraverso lo spirito che permea la sua installazione.
Lontano dai “prodotti” compiuti, Penombra mostra come, pur nella loro prestabilita collocazione, gli elementi che compongono il paesaggio creato siano vitali e palpitanti, sempre e continuamente in maniera diversa.
Le fonti sonore, un tutt’uno con gli elementi a cui sono associati, attivano percorsi ogni volta differenti, a seconda della posizione che occupa il visitatore; la loro accensione, avvenendo casualmente, non rispecchia alcuna predeterminazione.
La spazializzazione del suono, sperimentata in tempi meno sospetti già da Le Corbusier, Xenakis e Varèse (padiglione Philips, esposizione mondiale di Bruxelles, 1958), non trova, in quest’ ambiente dalle pareti parallele, terreno ideale, ma funziona nella misura in cui è lo spettatore a lasciarsi catturare dagli oggetti avvicinandosi a loro per un contatto più intimo.
Il mix che ne deriva è sempre una combinazione nuova, pur rimanendo identiche le tracce. Queste a loro volta, combinazioni di elementi concreti scrupolosamente registrati, sono affidate a piccoli amplificatori che, vibrando a causa dei suoni emessi, modificano continuamente il terriccio e i pigmenti che li ricoprono, creando iconografie nuove, di difficile percezione, immagini del suono stesso al limite dell’identificazione.
L’organizzazione del tempo e del ritmo si presenta come continuità nel discontinuo, come massa di singoli elementi discreti di un soundscape dove regna una perfetta relazione tra ciò che è mostrato e ciò che è ascoltato. Bisogna procedere lentamente e senza fretta per cogliere i diversi mezzi simbolici coinvolti in questa concertazione. E in quel sussulto simultaneo, non percepibile ovunque per ovvi motivi legati alla differente intensità dei suoni, farsi stupire dalla vitalità delle pietre, topoi miliari dell’opera di Rolf Julius.
Il paesaggio di “sons et lumières” è immerso in una penombra rassicurante, frutto di poche sorgenti luminose artificiali che indirizzano l’attenzione sugli elementi vibranti, tra cui spiccano due schermi video che proiettano in loop paesaggi apparentemente statici. Unica fonte naturale, ad indicarci emblematicamente l’entrata e l’uscita del percorso, viene dall’alto, come ammonimento imminente sulla realtà esterna, edulcorata ed elusa in questo gioco di sensi.
Che si tratti di catarsi o di semplice suggestione non ha importanza, l’effetto è sicuramente dei più durevoli e va al di là della scena calcata. Forte è la relazione metaforica che si instaura tra forma e contenuto, identificazione empatica tra luogo espositivo e paesaggio artistico, di matrice, diremmo, heideggeriana.
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