Non sarà di certo il battibecco fra Vittorio Sgarbi e Giovanni Romano a esser ricordato in vece di quest’evento dal carattere filologicamente ineccepibile. Tra i due big, inevitabili dissidi politici (l’annosa questione del Crocifisso del
Giambologna su tutte) hanno impedito un dialogo ben più fruttuoso su temi scientifici relativi alla mostra. Lo show finale, durante il quale l’assessore ha dato del
“bugiardo, ladro, falsario” al professore, è servito soltanto a sollevare ulteriori insulti da parti avverse del pubblico. Ciò che resta inviolato, per fortuna, è l’evento in sé. Una collezione dalla firma inequivocabile, assolutamente connotata e riconoscibile.
Il segno di uno dei più significativi e bizzarri critici d’arte del Novecento, Roberto Longhi, albese di nascita.
Figura atipica e nello stesso tempo pregnante e incisiva dell’ambiente culturale italiano dagli anni ’20 al dopoguerra, Longhi incarna la
connaisseurship più “rabdomantica”, in cui l’attribuzionismo nasce in seno a un’innata capacità di tradurre in scrittura il corpo dell’oggetto d’arte. Ricordato soprattutto per una serie di testi che hanno fatto scuola (
Piero della Francesca, l’
Officina ferrarese, il
Viatico per cinque secoli di pittura veneziana) e per la mostra monografica del 1951 su
Caravaggio, Longhi è anche stimato insegnante universitario, direttore di alcune riviste -tra le quali l’ancora oggi esistente “Paragone”- e creatore, con Umberto Barbaro, di atipici documentari d’arte.
Come ha ben sottolineato Mina Gregori, curatrice della mostra insieme a Giovanni Romano e Maria Cristina Bandera, nonché Presidente della Fondazione Longhi a Firenze, Longhi sapeva
“spalancare un mondo, provocando spesso una vera e propria crisi nella storia dell’arte vigente”. Quest’atteggiamento avanguardistico gli ha permesso di riscoprire -e a volte scoprire ex-novo- luoghi della storia dell’arte completamente dimenticati. Il Trecento bolognese, ad esempio, o il Seicento realista di Caravaggio.
La mostra segue dunque l’andamento cronologico di questi “ritrovamenti” che hanno rivoluzionato i manuali d’arte, dalla pittura ascetica dei Primitivi duecenteschi e trecenteschi (di
Vitale da Bologna o
Jacopo di Paolo),
fino a quella essenziale ed elegantissima del Novecento di
Giorgio Morandi. In mezzo, dal Cinquecento al Seicento, un parterre straordinario di presenze dalla mano personalissima, come il
Borgianni, il Maestro del Giudizio di Salomone (
Jusepe de Ribera), gli ormai conosciutissimi
Lorenzo Lotto,
Mattia Preti,
Giovan Battista Crespi e, su tutti, Caravaggio (in mostra il celeberrimo
Ragazzo morso dal ramarro). Per passare, poi, al Settecento allora marginale del raffinato
Watteau e a quello irriverente di
Pietro Longhi. Oltre alla presenza di Morandi, caro amico del critico, il Novecento è rappresentato da alcuni intensi paesaggi di
Carrà degli anni ‘20 e da un mazzo di fiori di un
De Pisis particolarmente gioioso.
Da un approccio all’opera d’arte prettamente purovisibilista della prima maturità, Longhi sceglierà in seguito di portare più attenzione alla biografia, incorporando al suo occhio da scienziato la proiezione della personalità espressiva e psicologica dell’artista. I suoi giudizi netti -con possibilità di errori e défaillance importanti- e il carattere letterario e sperimentale della sua scrittura possono urtare e indisporre il lettore. Ma evidenziano un rapporto appassionato, vitale e sincero con l’oggetto d’arte, materia e creazione spirituale.
“Longhi -scrive lo storico dell’arte Briganti-
ci insegnava che una vera opera d’arte non riflette ma esprime”. L’illimitata capacità di suggestione che l’opera solleva nello spettatore è esattamente la stessa che la critica e l’operato intellettuale di Longhi regala al Novecento.
La sua collezione, lungo il preciso percorso oggi visibile alla Fondazione Ferrero, ne è d’altronde la manifestazione più chiara ed espressiva. La riproduzione fedele di quell’incanto che Longhi provava di fronte a una delle nature morte caravaggesche:
“La natura morta, vita di oggetti silenti sotto il crescere o il diminuire della luce e dell’ombra; una forma d’incanto quasi autonomo che sembra portato dalle cose abbandonate a sé stesse; ma che pure specchiano lo sguardo inclinato dell’uomo, e in primis, di colui che l’ha prodotto, quell’incanto” (
Mostra del Caravaggio e dei caravaggeschi, 1951).