“
È stato come incontrare qualcuno che conosco ma che non capisco del tutto”. Responso insindacabile di
Werner Herzog (Monaco, 1942) all’indomani della visita alla propria mostra
Segni di vita. Werner Herzog e il cinema. Come dargli torto? Ritrovarsi a faccia a faccia col proprio io sconvolgerebbe chiunque, tanto da condurre alla pazzia (come insegna la parabola della
Storia infinita), a meno che non si possieda una buona dose di fiducia in se stessi e coraggio da vendere. Che non mancano certo al regista tedesco, autore di ben 52 film tra corti, medi, lungometraggi e documentari a dir poco estremi, realizzati nel corso di 45 anni di attività, senza quasi mai programmare nulla. Perché “
sono i progetti che vengono da me”.
Dunque, un personaggio e una carriera da celebrare con un omaggio-evento, pianificato per un anno e mezzo dallo stesso Herzog col Museo Nazionale del Cinema di Torino e reso attraverso articolate proposte. Innanzitutto, la retrospettiva completa di tutti i suoi film (35 dei quali ristampati per l’occasione dall’istituzione torinese, a partire dai negativi originali). Poi un cine-concerto, un laboratorio di cinema e scrittura di due giorni diretto dal regista presso la Scuola Holden. Senza dimenticare l’ampia monografia-intervista, per nulla biografica o cronologica, realizzata da Grazia Paganelli, che ha saputo entrare nel vivo della sua poetica.
Infine, la mostra alla Sandretto, sezionata per l’occasione in undici salette cinematografiche per accogliere altrettante videoinstallazioni dedicate ad aspetti e momenti della sua vita e opera. Oltre a tutti quei materiali fotografici -foto di scena, con l’aggiunta di scatti della moglie Lena sul set di
Rescue Dawn (2006)- che costituiscono l’archivio della sua omonima casa di produzione. L’allestimento segue un percorso scandito per gradi successivi di complessità ed è pertanto funzionale a condurre lo spettatore-visitatore al cospetto della “
verità estatica” herzoghiana.
Proprio la ricerca dell’estasi è la chiave per decifrare al meglio gran parte dei suoi film, sempre in bilico tra finzione, documentario e video d’artista. “
Ho difficoltà a considerarmi un artista”, ha dichiarato in conferenza stampa il regista, “
e a distinguere tra finzione e documentario. So che ci sono differenze, ma queste non mi fanno sentire a mio agio”.
Molto utili alla comprensione del fenomeno Herzog anche i sei montaggi per nuclei tematici, schierati nel lungo corridoio della Fondazione, realizzati con sequenze del suo cinema più celebre. Quello interpretato dall’allucinato Klaus Kinski in titoli che vanno da
Aguirre, furore di Dio (1972) a
Nosferatu, il principe della notte (1979), fino al mitico
Fitzcarraldo (1982), del quale sono in visione pure alcune scene dove compare Mick Jagger, poi tagliate nella versione definitiva.
Conclude la mostra l’unico storyboard dell’intera carriera del regista tedesco, realizzato per la scena finale del film
Grido di pietra (1991).
Che suonerebbe un po’ come l’abiura del suo credo cinematografico tutto genio e sregolatezza, se non fosse specificato nella didascalia: “
Su espressa richiesta della produzione”.