Tutto ebbe inizio al Caffè Michelangelo di via Larga (oggi via Cavour 21), nei pressi del Duomo a Firenze. Correva l’anno 1850 e un gruppo di artisti, non solo toscani, prese a riunirsi regolarmente in una saletta del noto locale fiorentino a discutere di “macchia”. Senza sapere che di lì a pochi anni (1856) avrebbe gettato le basi per la realizzazione di una pittura nuova, libera, lontana da ogni ufficialità accademica e fermamente decisa a inseguire la verità di tutti i giorni. E proprio la ricostruzione di quell’antico caffè in una delle sale di Palazzo Bricherasio (dalle pareti verdine occupate da copie-ritratto dei suoi protagonisti con relativi aneddoti connessi) diventa il fulcro di questa mostra, dedicata ai macchiaioli (termine usato per la prima volta sulla Gazzetta del Popolo nel 1862, in occasione di un’esposizione fiorentina). Di quel gruppo facevano parte Telemaco Signorini, Giovanni Fattori, Giuseppe Abbati, Silvestro Lega e Adriano Cecioni, attivissimi pionieri di un movimento pittorico rivoluzionario che predicava nuovi modi di dipingere, in largo anticipo rispetto al sentire impressionista, per molti versi ad esso analogo ma non uguale. Perché gli italiani alla fuggevolezza della luce e del colore dei francesi preferivano la solidità dell’immagine, resa attraverso il contrasto chiaroscurale.
Senza dimenticare poi la forte dose di spirito risorgimentale che tale immagine si portava dietro, in anni caratterizzati dalle lotte per l’unificazione dell’Italia, come traspare dalle parole pronunciate dal critico dell’epoca Diego Martelli, durante una conferenza del 1877: “Si doveva dunque combattere e combattendo ferire, era quindi necessaria un’arma ed una bandiera, e fu trovata la macchia in opposizione alla forma”. Forma intesa come fredda e cristallizzata incarnazione di un frainteso romanticismo retoricamente storico, da abbandonare, invece, a favore dell’allora nascente ideale pittorico macchiaiolo. Teso a catturare il sentimento del vero, nel senso di dovere morale per l’artista di testimoniare il proprio tempo con sincerità e abnegazione.
Un’indagine che nella presente rassegna si articola in otto sezioni, allestite in modo tale da restringere tutto il movimento dei realisti toscani intorno ad alcuni punti fermi: da Origine e affermazione della macchia, passando per il luminosissimo segmento Castiglioncello e Piagentina, realtà e lirica del paesaggio, si arriva al momento dedicato all’Epica del quotidiano.
Forse il migliore, per la scelta di esporre il ritrovato capolavoro di Telemaco Signorini (Firenze, 1853 – 1901) L’alzaia, oggi proprietà di una collezione inglese ed espressione di autentica sensibilità nei confronti del tema lavoro. Che diventa il soggetto principale di una tela di stretto taglio orizzontale e di grandi dimensioni, dove si possono riconoscere tutti i princìpi (per lo più volti a recuperare i criteri della pittura quattrocentesca, come ben ricordato dal curatore Francesca Dini) della poetica realista: gigantismo dell’immagine, punto di vista molto ravvicinato e l’uso frequente del controluce che, non permettendo di coglierne i dettagli, ottiene il risultato di amplificare il sentimento di una particolare situazione. Lo stesso dicasi per Le macchiaiole di Giovanni Fattori (Livorno, 1825 – Firenze 1908), elogio della sintesi luministica, qui contrapposte nella raffigurazione dello stesso soggetto al dipinto Boscaiole di San Rossore. Opera di Francesco Gioli (San Frediano a Settimo, 1846 – Firenze, 1922), uno dei tanti epigoni esposti nella mostra torinese e appartenente già alla seconda generazione del movimento, ormai depotenziato di ogni precedente tensione etica per approdare, dopo il 1870, ad una semplice e piacevole narrazione della realtà.
E infine, tra lo scorrere dei lavori del napoletano Abbati, del veneziano Zandomeneghi e del ferrarese Boldini si assiste, nelle ultime sale, al ritorno dei tre grandi (Fattori, Signorini, Lega), ciascuno colto nel suo personale percorso all’interno della macchia. Ciascuno diverso.
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claudia giraud
mostra visitata il 15 febbraio 2007
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