Dopo aver transitato nella metropolitana parigina, nel 1926 Ezra Pound scrisse una composizione haiku intitolata In a Station of the Metro: “L’apparizione di questi volti nella folla; Petali sopra un umido ramo nero”. In questa criptica dichiarazione risiede l’ambivalenza della mostra curata da Iwona Blazwick e Carolyn Christov-Bakargiev. Se intendiamo i petali poundiani come i volti che emergono dalla folla-ramo nero, l’attitudine che emerge è pessimistica. È l’adagio sposato da certa psicologia di massa, per cui la concentrazione tende ad azzerare l’individualità, cosicché il volto di levinasiana memoria viene cancellato dal magma della folla. È quindi la peculiare sensibilità dell’artista a ri-s-velare la verità dell’essere umano nella sua ineliminabile singolarità. Un processo veritativo ed umanistico sotteso al pessimismo, che investe l’artista di un ruolo salvifico. V’è poi una seconda interpretazione del componimento, più improbabile se guardiamo alla biografia di Pound, ma che non va esclusa. Il ramo nero e umido potrebbe rappresentare la metropolitana e per metonimia la rivoluzione industriale con tutte le sue conseguenze, per esempio demografiche ed urbanistiche. Una rivoluzione dalle caratteristiche spesso drammatiche, ma sulla quale si staglia “naturalmente” il carattere umano. Altrimenti detto, non si tratta di un processo meccanicistico che sovrasta senza possibilità di contestazione.
La folla, espressione sovradeterminata di un processo capitalistico, è in realtà costituita da volti, cioè da individui dotati di una propria razionalità individuale e collettiva. E collettivo non è sinonimo di massa. L’ambiguità strutturale dello haiku non fu probabilmente una caratteristica casuale nella scelta di Pound. Poiché in quella permanenza parigina si poté rendere conto di come le reazioni degli artisti agli sconvolgimenti che si palesavano dalla seconda metà dell’Ottocento erano spesso più sfumate, ondeggianti dalla prima posizione alla seconda e spesso sostando nelle infinite sfumature intermedie.
Su questa base sdrucciolevole le due curatrici hanno ricostruito una storia dell’avanguardia artistica figurativa che si estende fino ai giorni nostri, a partire da Le Bal masqué à l’Opéra (1873) di Édouard Manet (un prestito della National Gallery di Washington, ulteriore conferma dello statuto del Castello di Rivoli). Una storia che non procede per movimenti e cronologie, che dunque non segue l’andamento della Storia dell’arte considerata in maniera avulsa dal contesto sociale.
Bensì assume il punto di vista del soggetto calato brutalmente nella metropoli ottocentesca e poi contemporanea. Frustrato o lieto di confondersi nella folla. E spesso il gioco delle parti si complica, in un who is who che coinvolge lo “spettatore”. Proprio la donna in maschera al centro della tela di Manet si distacca dai festanti e invita l’Altro aldilà del quadro. Juan Muñoz riprende la tematica della maschera e pone le sue sculture su sedie installate in alto nella Manica Lunga del Castello, mentre guardano i visitatori transitare. Quadro come porzione del reale nel quale il volto si duplica e pur essendo unico non è sé medesimo, come nello straordinario lavoro di Duchamp e nel lightbox di Jeff Wall.
Una rassegna, dunque, contraddistinta da alcune caratteristiche fondamentali: alcune buone domande che si sono poste le curatrici; un parco di opere scelte con accuratezza, senza accontentarsi del nome dell’artista; un allestimento non criptico ma nemmeno didascalico. In altre parole, quel che dovrebbe essere ogni collettiva degna di questo nome.
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marco enrico giacomelli
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