Per la sua quarta personale Francesco Lauretta (1964, Ispica, Ragusa), riflette sulla percezione della pittura, costruendo un percorso che inizia nella prima sala attraverso la visione di una fotografia scattata a tre protagonisti di una festa religiosa a Scicli, paesino della Sicilia sud-orientale. Si tratta di due ragazzi e un bambino in sella ad un’asina, tutti agghindati, animale compreso, in vista dell’importante occasione, e in posa per l’imminente scatto. I ragazzi sono vestiti con pantaloni e gilet neri e camicie bianche; i due più grandi hanno il capo coperto da un fazzoletto, e tutti portano al collo foulard colorati. L’asina ha fiori e lunghi steli d’erba sul corpo e una copertina azzurra sul dorso sopra la quale siede il bambino. Gli anfibi ai piedi di quest’ultimo tradiscono l’indeterminatezza temporale: si tratta di uno scatto recente, dei nostri tempi. L’artista ha acquistato questa foto colpito dall’iconografia che gli richiamava alla memoria certa ritrattistica del sei-settecento, attratto da quella posa forzata che racchiude differenti pulsioni in uno stesso istante. Probabilmente fieri e orgogliosi, ma anche assai emozionati, i protagonisti di questa parata religiosa entrano a far parte della tradizione, che il tempo non cancella, e, consapevoli del loro ruolo, mostrano alla persona che li vuole immortalare un contegno all’altezza della situazione.
Si procede per la seconda sala dove si trovano due tele di grandezza uguale, una di fronte all’altra. Uno è il titolo del quadro che richiama immediatamente la situazione della fotografia appena vista, Altro è invece un quadro tutto bianco.
Si è più facilmente attratti dalla tela colorata, nonostante l’altra sia più vicina all’entrata della sala. Essa infatti grazie alla sua straordinaria dimensione accresce la voglia di scrutare da vicino la scena per gustarne i particolari e scoprirne i segreti. C’è un’intensa accentuazione caratteriale: i tratti dei ragazzi e le loro posture rivelano più di quanto abbia detto la fotografia, che si ferma solo all’apparenza superficiale. Il quadro reinventa la percezione del soggetto ed è creato pensando alla pratica artistica di Francisco Goya, che con il suo modo di dipingere riusciva a traslare esattamente le specificità caratteriali e a cogliere l’espressione più vera. Commuove la resa pittorica del bambino, ancora troppo imbranato per partecipare alle feste “dei grandi”, goffo e intontito, peso morto sull’animale vivo, con le mani cicciotelle alle quali non riesce a dare una giusta posa. “Uno”, come sottolinea l’artista, “è semplicemente, con il suo abisso e il suo godimento estetico”.
Altro prende ancora spunto dalla stessa fotografia. Lauretta, dopo aver disegnato scrupolosamente i particolari della scena sulla tela, ha dipinto utilizzando solo il bianco. Ha così cancellato ad ogni mano di colore i segni tracciati precedentemente. Strati e strati di velature bianche, sbuffi materici leggeri e impalpabili, creano un paesaggio dai confini labili e imprecisi. Bisogna sforzarsi un po’ e socchiudere gli occhi per comprendere il significato, anche se la sensazione percepita è quella dell’incompletezza. Il bianco aiuta chi guarda a non essere influenzato, a mantenere la giusta distanza. Ed è grazie a quest’indeterminazione che lo spettatore, co-artefice inconsapevole, entra veramente in gioco per creare infinite possibilità percettive. Perché Altro sono i nostri occhi, è lo spettatore, che guarda.
monica trigona
mostra visitata l’8 febbraio 2005
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