Chi era
Hans Richter (Berlino, 1888 – Lugano, 1976)? Un pittore col pallino di liberare la forma e il colore dal giogo della rappresentazione naturalistica o un regista col senso innato per la sperimentazione dell’estetica cinematografica? Entrambe le cose. Anche se, poi, l’eterno dilemma sulla propria identità artistica ha cominciato ad accompagnarlo qualche anno dopo il suo interesse nei confronti di Dada a Zurigo.
Interesse che sorge essenzialmente per motivi legati ai tentativi pittorici di scoprire le possibili relazioni tra linea e piano, attraverso combinazioni sempre diverse. E precisamente a partire dal 1921, anno del suo primo film astratto, intitolato
Ritmo 21, nato con lo scopo di rendere visibili le “tracce di movimento” contenute negli elementi geometrici dipinti su tela, esclusivamente in bianco e nero. “
Fu proiettato solo nel 1924 a Berlino nel Teatro Ufa Kurfüstendamm”, ha ricordato Richter nella sua autobiografia, “
insieme a Entr’acte
di René Clair e al Ballet Méchanique
di Léger. Il pubblico, già irritato da questi ultimi due film dei quali non aveva capito niente, reagì con una furia incredibile a Ritmo 21
, che presentava solamente rettangoli”.
Da quel momento, pittura e cinema sono diventate una cosa sola per Richter, almeno finché le esigenze di entrambi non hanno avuto il sopravvento, reclamando ciascuno le proprie singole specificità, rispettivamente in direzione di una forma sempre più pura e di una ricerca di soluzioni tecniche adeguate al credo dadaista.
“
Sono incerto fra il caso e la coscienza, tra l’improvvisazione e l’ordine superiore”, ha scritto Richter. “
Astratto? Certamente, ma in che modo?”. Ed ecco inserirsi, a proposito,
Dreams that money can buy, vincitore nel 1947 del Leone d’Oro al Festival Internazionale d’Arte cinematografica di Venezia e vero pezzo forte di questa personale.
Il film è proiettato sull’intercapedine compresa fra il soffitto e una parete della galleria, e si assiste a un compendio del repertorio Dada. Perché include episodi progettati e diretti dai protagonisti dell’avanguardia degli anni ’20, mostrandone i motivi artistici prediletti in chiave cinematografica: burattini mobili realizzati per l’occasione da
Alexander Calder, dischi rotanti ipnotici tratti dal
Nudo che discende le scale di
Marcel Duchamp e altre creazioni o situazioni partorite da
Max Ernst,
Fernand Léger e
Man Ray. Tutte nate per esplorare le possibilità di questo nuovo mezzo visivo chiamato cinema.
Completano il percorso pensato per questa mostra dal respiro quasi museale una trentina di opere pittoriche, curiose lettere dedicate al gallerista e collage sul tema delle
Teste Dada, datate fra gli anni ’20 e gli anni ’70, che ne illustrano la costante ricerca dell’artista: dar forma al movimento.