Le fotografie di
Simone Martinetto (Torino, 1980) sono incontri che sfumano. Nella sua prima personale torinese, sguardi e vite condivise compongono la materia visiva dei tre progetti presentati. All’interno della galleria Claudio Bottello, un contenitore piccolo e prezioso, ci si sente inizialmente disorientati, tesi cioè tra immagini di un ieri che è ancora troppo vicino per essere chiamato definitivamente passato e ritagli di un quotidiano che testimoniano il presente.
In mostra vi sono storie, racconti visivi che sembrano riportare alla musicalità dei cantastorie di un tempo. A differenza, però, dei racconti a cui siamo abituati, quelli di Simone Martinetto non iniziano dalla sorgente di un fiume, ma dall’arrivo, dal suo stesso delta. Le prime immagini presentate dall’artista, infatti, ritraggono Tulcea, la cittadina romena in cui sfocia uno degli ultimi tratti del Danubio, il fiume che trascina con sé, separando e avvicinando, dalla Germania alla Romania, le esperienze e le tradizioni dei popoli europei e balcanici. Sulle rive di questo fiume, dall’alba al tramonto, Simone Martinetto inizia a lasciarsi guidare da un cane, il primo dei suoi protagonisti casuali e, in un susseguirsi di coincidenze, fotografa dapprima l’incontro con una bambina, poi con una donna, con dei battellieri e, infine, con un guidatore di pullman.
Fissate nei suoi scatti-cartolina e sfumandosi l’una nell’altra, le immagini di Martinetto sono il risultato di una vera e propria investigazione, una pratica artistica per scoprire e riconoscere un po’ di sé attraverso gli altri e che porta l’artista, come nella
Suite vénitienne di
Sophie Calle, a scegliere la vita altrui come soggetto principale da porre davanti al suo obiettivo fotografico.
Nel piccolo vano del piano inferiore della galleria, visibili dal mezzanino, sono proiettate le immagini di
Viaggiatori (2005-06), il secondo progetto in cui, tra melanconie musicali di chitarra, stormi di piccioni in volo e domande esistenziali, Martinetto riflette sui concetti di libertà, viaggio e ritorno. Alla domanda “
Che cos’è la libertà?”, lo stesso artista prova a dare delle risposte. Ed è così che, attraverso la sola fotografia, l’uomo diventa un piccione viaggiatore perché anch’egli, non appena libero, sente la mancanza del luogo da cui è partito, ha il desiderio di tornare a casa o, per dirla con Martinetto, nella propria gabbia.
La gabbia è, inoltre, la metafora della dimensione emotiva nella quale vive la protagonista di
Senza la memoria (2004), l’ultimo progetto in mostra. L’anziana signora, nonna dell’artista, a causa delle sue difficoltà a ricordare, abita in una casa cosparsa di post-it predisposti dalla figlia, biglietti-promemoria che scandiscono, secondo un ordine di priorità, il suo quotidiano.
Naturale sviluppo di situazioni altrui vissute in modo autobiografico, le fotografie di Martinetto non sono altro che il richiamo a una dimensione più ampia e universale. Perché, anche per Martinetto, “
io sono l’altro”.