Quattro artisti orientali per raccontare le contraddizioni, a tratti schizofreniche, della realtà. In un gioco apparentemente irrisolto tra apparenza ed esistenza. Una collettiva curata da Luca Vona che prende spunto da un articolo firmato da Alfredo Sigolo, recentemente pubblicato su queste pagine e su quelle di Exibart.onpaper.
Rashid Rana (Lahore, Pakistan, 1968), sceglie il mosaico (il passato, la storia del mondo islamico, la pazienza) e lo riveste di tecnologia (il presente, internet, l’immediatezza). Brandelli di foto, cinematografia americana e cronaca, volti e identità sconosciute per ricreare e rappresentare la tradizione: interni di moschee, luoghi religiosi, donne nascoste dal burqa. L’essere si confonde con l’apparire. Per comporre gli strati che danno forma al volto coperto di una donna in Veil 1 (2006) l’artista utilizza un vastissimo collage pornografico. Foto di donne spogliate per ricoprire il volto di una sola. Erotismo o castigo? Un solo modo d’intendere nudità e schiavitù femminile, nascosto e/o esibito in due (solo apparentemente) inconciliabili contraddizioni.
Castigo e vergogna, anche per la femminilità sofferta evocata da Mithu Sen (Burdwan, West Bengala), dove la delicatezza e l’eleganza della tradizione popolare (l’utilizzo di fogli di riso fatti a mano, i richiami continui all’arte tessile femminile) vengono macchiate dall’imbarazzo e dalla vergogna di sentirsi donne.
Nel trittico Behind the Tail le favole e i miti popolari sono esposti senza prudenze; liberati dalle censure edulcoranti delle convenzioni sociali tornano ad essere ciò che sono (e sembrano). Scomodi, crudi, assolutamente sensuali e sessuali. Lupi, pesci e corvi vengono appostati da Mithu tra i rami di alberi che figliano asparagi e altri simboli fallici al posto delle foglie.
Primo piano sul corpo, invece, per Chitra Ganesh (New York, 1975). Nata e cresciuta a New York, integra una tradizione arcaica di castigo e punizione derivante dalla mitologia Hindu con la celebrazione di una carnalità orgiastica, mixando la memoria storica dell’India con il wall painting, la cultura fumettistica e la cinematografica occidentale. L’artista evidenzia il corpo come espressione di sessualità e violenza, di quelle stesse tensioni schizofreniche che dividono (e uniscono) tradizione e modernità, collocandolo al centro di un lavoro a metà strada tra i fumetti horror e il Rigveda. Così la Ganesh illustra fumetti in cui bellezze muliebri dalle fattezze orientali si abbelliscono in una withdrawing room di braccia amputate e di richiami sessuali grotteschi.
Con Wai Kit Lam (Hong Kong, 1966) la dimensione schizofrenica della realtà si concentra in una ricerca più intima. Il suo lavoro è una ricerca filosofica e psicoanalitica (è esplicito il richiamo a Jacques Lacan) condotta attraverso un ossessivo (e compulsivo?) obbiettivo fotografico. Pavimenti e foglie di ficus alle prese con la fase dello specchio lacaniana, dettagli ambientali tra ombre, luci e brillantezze opache in una paranoica ricerca di un’individualità di per se stessa dissociata da se stessa. E in The Divided Minds (2006) l’indagine allo specchio e il turbamento della scissione tra l’essere e la sua rappresentazione vengono letteralmente riflessi in un’immagine specchiata e poi fotografata. Ciò che il soggetto è o vorrebbe essere, da una parte dello specchio (e dell’obbiettivo), e ciò che non sa e non può comprendere di essere, dall’altra.
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