Vedendo dal vivo Gilbert & George è impossibile sbagliarsi, perché sono uguali a come li si può osservare in decine di loro opere. Hanno iniziato negli anni ’60 proponendosi come
Singing Sculptures, ballando e cantando all’unisono una canzonetta. Oggi sono diventati
Living Sculptures. Anzi,
living monuments. Monumenti di sé stessi, ovviamente. Gilbert (San Martino, Bolzano, 1943) & George (Plymouth, 1942) si riconoscono al primo sguardo, come le loro opere del resto. Identici completi da ufficio, uno grigio e l’altro beige; identiche cravatte, voce pacata e sorriso gentile. Così si presentano al pubblico da quasi mezzo secolo e così si presentano alla conferenza stampa che inaugura la loro
Major Exhibition al Castello di Rivoli, con oltre 150 lavori che ne ripercorrono l’intera carriera.
Senza dubbio egocentrici, sono soliti rappresentarsi nelle loro opere, talvolta nella consueta “divisa”, in altre occasioni nudi o in slip, sprezzanti dell’età che avanza impietosa. Da questi tranquilli inglesi ci si aspetterebbe una buona tazza di thè; invece offrono opere gigantesche dai colori accesi e dai contenuti urlati, dissacranti e provocatori. Non sono gli autori di un trattato sulle farfalle, ma firmano opere intitolate
Fuck,
Lick,
Cunt o
Sperm Eaters. Da quarant’anni, questa premiata ditta si diverte a scandalizzare i benpensanti, creando un cortocircuito d’immagine tra la propria figura e la propria opera, parlando di sesso, religione e morte. Vivono in una casa nell’East End londinese. Da lì osservano il mondo e trovano l’ispirazione necessaria per la loro arte. Perché
“non accade nulla nel mondo che non accada nell’East End”.
Instancabili e meticolosi collezionisti di fotografie scattate per le strade, le raccolgono in un archivio sterminato, diviso per temi. Quelle immagini sono alla base delle loro opere: fotografie stampate e poi trattate con il colore, che vanno a comporre gigantesche
picture. Vogliono fare
“arte per tutti”, perciò i temi riflettono la vita quotidiana: si ubriacano e producono le
drinking pictures, prendono casa e la fotografano in
Dusty Corners. Si guardano intorno, e dal loro privilegiato angolo di osservazione paiono prevedere e comprendere appieno i mutamenti in atto nella società : negli anni ’70, con le
dirty words pictures, fotografano il clima di malessere sociale e aggressività punk dell’epoca, portando le scritte sui muri dentro i musei.
Se quel decennio è in bianco e nero, con il rosso a segnare un contrasto violento, negli anni ’80 esplodono i colori, violenti, chimici, esagerati. G&G fotografano i ragazzi del quartiere mettendoli in pose ora ammiccanti ora da realismo socialista. Ma sono gli anni dell’Aids e presto i toni diventano più cupi, colmi di sofferenza.
PiĂą recentemente, G&G parlano di temi che diventano presto di pressante attualitĂ , come la religione e i fondamentalismi. Loro, naturalmente, osteggiano la religione e non perdono occasione per sbeffeggiare il simbolo della croce. Parlano di sesso, reso pari a una qualunque merce in
Named, successione di annunci a sfondo sessuale. Parlano dell’East end, di sesso ed escrementi, riportando le immagini trovate nei loro vagabondaggi per la città come autentici flâneur contemporanei.
Ma parlano anche di bombe e terrorismo, in relazione agli attacchi del 2005, con le opere della serie
Six Bombs sculptures, dove la loro immagine deformata e speculare, resa quasi mostruosa, campeggia su uno sfondo di minacciosi titoli di giornale riferiti agli attacchi stessi.
Tutto questo e molto altro raccolto in una mostra che, dopo la Tate e la Haus der Kunst di Monaco, arriva in Italia, pronta a ripartire in gennaio alla volta degli Usa.
Exhibition e non
Retrospective: così hanno voluto gli artisti, perché il titolo fosse comprensibile a tutti. Spazi e opere che hanno accuratamente e personalmente selezionato, supervisionando l’allestimento. Opere enormi che coprono le pareti fino a saturarle, come vetrate policrome di una cattedrale quanto mai laica.