Molteplici
sono i riferimenti di
David Bowes (Boston, 1957; vive a Torino e
Newton, Massachusetts), dall’esuberanza dei muralisti messicani al naïf
più genuino. Un disegno semplice, e una tavolozza vivace. Campiture piene, e torniture
prevalentemente affidate più a volumi smussati che a modulazioni tonali.
Prevale
in questa personale un’atmosfera cortese, gentile, che pare retrocedere ai
cicli “profani” tardogotici e rinascimentali, con quadri brulicanti di lieti e
operosi personaggi, vivaci come miniature, con un
quid aggiuntivo di Estremo Oriente.
Del resto, un’aria da Medioevo edenico si respira pure lasciando vagare
l’occhio di castello in castello, o immergendolo tra le chiare, fresche, dolci
acque aureolate d’alberi, cornice di tanta sensuale epica cavalleresca (e
l’opera in questione risalta per difformità stilistica rispetto alle altre).
Altra
dominante è una grazie arcadica e leziosa, che saccheggia la vetrinetta dei
ninnoli alla ricerca di damine e cavalieri in porcellana, vasi e scarpine
à
la vogue settecentesca,
maschere e
chinoiserie, in una specie di spensierato
Viaggio in Italia da uno stereotipo all’altro, e
non certo da turista per caso.
Perché
i legami tra Bowes e il nostro Paese vanno ben oltre i Pulcinella e gli
Arlecchini al lume della luna, i Pupi siciliani sullo sfondo dei Quattro Canti
a Palermo o il
Nudo di
Modigliani:
habitué da oltre vent’anni, l’americano ha in curriculum soggiorni a Napoli –
alla “corte” di Lucio Amelio -, Roma, Firenze, Palermo e Torino. E decisamente
metafisico è proprio l’omaggio alla capitale sabauda, con uno scorcio di piazza
Vittorio Veneto dominato da un’enorme
Alba, così come resta in odor di
de Chirico la poderosa sospensione di
architetture desolate. Forte di un consumato mestiere, e coerente con la scelta
figurativa compiuta fin dagli anni ‘80, l’artista si misura pure col genere
“più genere” tra tutti: la natura morta.
Peso
ma non zavorra, la tradizione aiuta il pittore a costruire un mondo fiabesco ma
non necessariamente irreale, sul quale incombe una contemporaneità
emblematicamente “sintetizzata” in grattacieli e palazzi alquanto anonimi. Ma
la civiltà, bontà sua, resta in secondo piano, “neutralizzata” cromaticamente,
mentre il
locus amoenus si cristallizza come proscenio, senza spezzare l’idillio bucolico di
donzelle più o meno esotiche adagiate sul prato.