C’è un rischio nemmeno troppo
sottile ad affrontare le
Domestic Conditions di
Sophie Usunier (Neufchâteau, 1971; vive a Milano), ricreate
negli spazi del Parco d’Arte Vivente di Torino. È quello di cedere alla
pigrizia, di farla facile, di fermarsi alla superficie e non aver voglia di
andare oltre; il rischio – tanto per rimanere in ambito “casalingo” – di darsi
una strofinata sullo zerbino, buttare dentro il naso e scappare via subito,
come si fa sotto Natale con i parenti alla lontana.
E invece no, qui c’è da entrare eccome. Entrare e sedersi
al tavolo. Aspettare, ascoltare, guardare.
Condizioni domestiche è il tema dell’intervento, curato
da Claudio Cravero: un collage di cinque opere più o meno recenti, più o meno
inedite (alcune le abbiamo già apprezzate a Piacenza
chez Livio Baldini), più o meno
pungenti. Legate dall’analisi del preteso controllo dell’uomo sulla natura,
della domesticazione dell’ambiente, della sua declinazione alle esigenze della
società (in)civile, dell’ingrigirsi di un rapporto che ha perso il carattere di
necessario equilibrio per franare verso la coercizione più restrittiva.
Tema da
no global dieci anni dopo Naomi Klein? Ecco, sì: volendo semplificare
e interpretare
Les Vents Contraires, collezione di ventilatori imbrigliati nelle maniche a
vento, come la denuncia della patetica volontà dell’uomo di incatenare persino
il vento; a maggior ragione sì, se si guarda come il volo di mosche ritratto in
Whirling dervish flies sia solo apparentemente sincrono con il commento musicale, scelto per
illudere che anche gli insetti danzino al ritmo della nostra cultura. Semplificando,
dunque, sarebbe in fin dei conti tutto qui.
Ma c’è dell’altro. C’è l’urgenza di chiedere e chiedersi
quale spazio occupi, in questo panorama di prevaricazione, l’uomo. Non c’è
riscaldamento globale, foresta stuprata o foca bastonata che tenga: la
questione vera, posta da Usunier, non è cosa stiamo facendo a ciò che ci
circonda, non è quali conseguenze questo comporti alla nostra vita, e non è
nemmeno verso quale direzione ci stiamo muovendo. È, crudamente e crudelmente:
chi siamo?
La risposta, splendida, viene da
Nature morte: una parete dove in cornice
finiscono le liste della spesa dimenticate nei carrelli del supermercato. È
vero, come indicano artista e curatore: si tratta di una riflessione sul nostro
asservimento al superfluo, sullo scarto tra l’essenzialità dei bisogni che
segniamo sulla carta e la grottesca ridondanza di quello che infine presentiamo
alla cassa.
Ma non possiamo accontentarci di questo.
Nature morte è una galleria di volti, e in
quest’ottica persino il titolo scelto brilla di una luce nuova: è la nuova
frontiera della ritrattistica, ed è fedele, totale, iperrealista. Secondo
questa suggestione,
Antonello da Messina, oggi, forse non indugerebbe più sulla spavalderia
dei sorrisi o sul gongolare degli sguardi: passerebbe direttamente a
incorniciare estratti conto.
Sophie Usunier racconta l’ultimo stadio dell’essere
borghese, la placida cieca ritualità della società globale.