Raggiungere il Filatoio di Caraglio è come entrare in una favola. Il palazzetto affrescato nelle tonalità pastello in stile neorococò, con i suoi due piani, le stanze dai soffitti a volta e il cortiletto, sembra caduto dal cielo nel bel mezzo della campagna cuneese. Ma le sorprese non si limitano alla struttura museale, la mostra, curata da Andrea Busto è rigorosa e di respiro internazionale.
Superato un piccolo atrio dove un monitor proietta i commenti che gli artisti hanno fatto dei loro lavori, si passa alla stanza di Flavio Favelli (Firenze, 1967, vive a Bologna). Si viene accolti da luci soffuse, pareti beige e un palco da camera, un pulpito di una chiesa che è stato rivestito dalle immancabili piastrelle, vero segno di riconoscimento dell’artista, e che poggia su un tappeto-archivio, una distesa di rettangoli morbidi di diversa provenienza, cuciti insieme a formare un’unica superficie tessile. A lato, assi di legno bianche compattano due sedie affiancate da una ciotola ovale di ceramica, rovesciata come il secchiello del ghiaccio che pende dal soffitto dentro un lampadario di cristallo. Attesa e ricordo. Uno spazio mentale, denso di vissuti crea un’atmosfera di sospensione che sfocia nell’ambiente di Erwan Ballan (Saint Germain en Laye, 1970, vive a Parigi). Un’irruzione fragorosa di colore materico. Con i suoi Enfer, ciel et autres choses semblables (2004) il giovane artista francese comprime sotto due lastre di vetro resine colorate e silicone in composizioni astratte, le cui tonalità si prolungano sul muro sotto forma di garze colorate. Per un elogio del denso e malleabile materiale, cui si vorrebbe avere accesso tattile, frantumando il vetro.
Uscendo, la vista viene confusa per un attimo, è lo shoc da impatto con optical pattern. Siamo nella stanza di Jim Lambie (Glasgow, 1964, vive a Londra) e il vinile adesivo bianco e nero sul pavimento segnala che il perimetro dello spazio architettonico si è propagato dai muri come un’onda concentrica. Su questo suolo irribetibile, in quanto dipendente dalla conformazione fisica dell’ambiente, ciondolano grandi ciglia rosso fuoco come raggi di sole d’alluminio. Ed eccoci all’ultima tappa del percorso, tra le mappe reticolate dell’americana Diana Cooper (New York, 1964, vive a New York). Usando il forex, materiale leggerissimo ma molto resistente, l’artista costruisce Orange alert (2004), un network intricato di striscioline e maniglie, strade colorate che, da una sorta di scatola degli interruttori, partono come frecce in ogni direzione per essere fissate all’estremità da puntine. Facendo riferimento al codice cromatico americano inventato per segnalare alla popolazione i diversi livelli di pericolo, questa stanza, memento mori dai colori caldi, rimanda al costante stato di allerta che vige nella città di New York (e non solo) per l’incubo terroristico.
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