È
stato
Fosco Maraini (Firenze,
1912-2004) a dare il titolo di fantasia (
Il miramondo) all’antologica prodotta nel 1999 dal Gabinetto
Vieusseux di Firenze, che ne conserva l’archivio fotografico completo (oltre 70mila
fotografie), e dalla Biblioteca orientale.
L’autore,
insieme allo studioso Cosimo Chiarelli, basò il ritmo espositivo sul
parallelismo fra realtà apparentemente lontane, ma accomunate da un
quid decodificabile: lo stesso sorriso, ad esempio,
stampato sul volto di un coltissimo e ingegnoso americano (Bernard Berenson),
ritratto nella siciliana Villa Palagonia (1954), e di un anonimo pakistano, tra
le rocce del passo Dukadak (1959).
Oppure
lo sguardo di una bambina, che sembra mistico, catturato nel 1951 fra i banchi
della scuola elementare di un paesino della Lucania; come quello di Salvatore,
un altro bambino di Aliano, seduto sui gradini con indosso il grembiule, la
cartella sulle gambe e due piedi che sbucano dalle scarpe rotte.
La lezione di
Steichen sembra assorbita da Maraini, il cui sguardo è
puntato sempre e comunque sull’uomo, anche quando descrive la natura, soprattutto
le amate montagne.
Fedele
alla scelta originaria, la mostra di Chivasso presenta una selezione di 140
immagini, prevalentemente stampe in bianco e nero, scattate tra il 1928 e gli
anni ’90. E non è casuale che Diego Bionda, responsabile delle mostre per la
Fondazione Novecento, l’abbia scelta per la VI edizione del festival internazionale
di letteratura
I luoghi delle parole, dedicata quest’anno al viaggio.
Fosco
Maraini riesce infatti a intercettare momenti che si cristallizzano in una
dimensione lirica, come quel sandalo abbandonato, in primo piano nella
prospettiva del santuario scintoista di Miyajima, che si perde nell’indefinito.
Due anni prima, nel 1952, con la stessa consapevolezza immortalava un James
Dean partenopeo, venditore di occhiali. Andando indietro nel tempo,
Geometria
di ferro (1928) è una foto di
grande equilibrio formale, che ricorda le sue prime sperimentazioni d’influenza
futurista.
“
Ho
sempre fotografato, perché il gioco mi dava gioia e basta, con voluttà quasi
amorosa”, scriveva Maraini nel
testo riportato in catalogo. Svelare i “
gelosi segreti” è una delle carte vincenti, per lui, affinché una
foto si possa definire “
riuscita”.
Non sempre, tuttavia, l’immagine risulta esplicita: quella che appare come
natura morta su un davanzale – affascinante quanto inquietante – contiene il
dramma e la follia umana:
Bottiglie cotte dalla bomba atomica, Hiroshima (1954).
La
fotografia è anche un documento prezioso per testimoniare un patrimonio
artistico-culturale distrutto come quello del Tibet, ove il fotografo si reca a
partire dal ‘37, al seguito dell’orientalista Tucci. Guarda lontano, la
principessa Pema, avvolta nei suoi abiti tradizionali ad oltre 4mila metri
d’altezza, nei pressi del passo Natu, tra Sikkim e Tibet. L’incertezza del
futuro di un popolo è racchiuso in quello sguardo.