Se il pubblico non va alla collezione è la collezione ad andare dal pubblico. È storpiando l’antico proverbio di Maometto e la montagna che si capisce meglio il concept che sta alla base di
Collectors 2, seconda edizione della serie di mostre omonima.
Anche se alcune collezioni, come La Gaia dei Viglietta, quella Maramotti, quella Gori o la neonata Zegna sono già passate dal privato al pubblico, inaugurando spazi espositivi più o meno aperti a tutti, l’aggettivo “privata” spesso continua però a significarne l’inaccessibilità ai visitatori esterni. La serie
Collectors, iniziata nel maggio 2006, porta al Filatoio di Caraglio una rinnovata figura del collezionista, che non si rifà più all’immagine di un appassionato d’arte chiuso in una casa-cassaforte dove nasconde tesori invisibili, ma che diventa quasi un nuovo mecenate.
Dopo
Collectors 1, che riunì numerose opere, anche se pur sempre la punta dell’iceberg, della collezione La Gaia, ora è la volta di una ventina di lavori appartenenti alla collezione di Renato Alpigiani.
Le opere in mostra tracciano il profilo di un collezionista che forse sarebbe piaciuto anche a Karl Marx. Non è il collezionismo di chi vuole trasformare la propria casa in un museo personale, ma di chi, pur acquistando privatamente le opere, vuole renderle fruibili a tutti. Il torinese Alpigiani è una figura lungimirante che, fin dagli anni ’80, ha scandagliato tutte le correnti che hanno determinato una svolta nella concezione odierna dell’arte contemporanea. È nata così una collezione che, per volontà e per vincoli spaziali -alcuni lavori non potrebbero fisicamente entrare in un’abitazione privata-, proprio non si adatta a star chiusa tra le mura domestiche.
Lo dimostrano esempi come
Tutti giù per terra di
Lara Favaretto, un cubo di tre metri per lato in cui quattro potenti ventilatori fanno vorticare senza sosta una tonnellata di coriandoli;
Fucked di
Sarah Lucas, tavolo su cui si condensano gli stereotipi sulla vita “subordinata” della donne; le 28 opere di
Carol Rama, che spaziano dal 1937 al 2005 e che tracciano tutto il percorso artistico della straordinaria artista torinese; e
Garbage Bag di
Sislej Xhafa.
Ma soprattutto testimonia la natura errante di questa collezione
Fin de siècle dei
General Idea, rappresentazione in lastre di polistirolo del pak antartico su cui dormono tre foche in peluche di dimensioni reali. Un’installazione che, prima del Filatolio di Caraglio, è stata esposta al Musée d’Art Moderne di Parigi, al Cadmen Arts Centre di Londra, al Power Plant di Toronto, alla XXIV Biennale di San Paolo, al Koury Wingate di New York e al Kustverein di Stoccarda.
Ci sono poi lavori storici come
Bossy Burger, residui materiali e fotografici tratti dall’omonima performance di
Paul McCarthy,
Black shale on European wood dell’artista nativo americano
Jimmie Durham,
C’est la vie di
Silvie Fleury,
Cigarette piece di
David Hammons, i tre lavori di
Jim Lambie e
Ricucire, un’opera che fa riscoprire il grande talento di un’artista poco conosciuta come
Marisa Lai.
Se la pensate come Indiana Jones e il suo “questa opera dovrebbe stare in un museo”, allora è la mostra che fa per voi.