Dopo Avvistamenti , il fortunato ciclo di esposizioni dedicate a giovani artisti internazionali iniziato nel 2000, la Gam di Torino riprende ad occuparsi dell’arte di oggi con la mostra Tempesta di cervelli, della bolognese Eva Marisaldi.
Tempesta di cervelli è, nelle parole della curatrice Elena Volpato: ”la messinscena dell’emergenza del suono come sintomo di un’interiorità costantemente
L’esposizione è appunto incentrata sul suono, ma anche sull’interazione tra installazioni fisiche e sonore con lo spazio e la temporalità.
Nella prima sala sono esposti una serie di disegni dal tratto sottile, suggestivi e leggerissimi: un’introduzione ”morbida”, sostiene l’artista, ai lavori successivi, che genera un’atmosfera particolarmente intensa, anche se vaporosa e rarefatta. Nell’ambiente attiguo un bambino ricamato in posa egizia su un giaciglio rudimentale ascolta, nel sonno, un rumore di percussioni ripetitivo e insistente. Nella terza sala è proiettato un video, realizzato di notte in un bosco illuminato in maniera intermittente. Il suono è quello di una batteria, invisibile, ed è sincopato come il movimento alterno della luce.
Nell’ultima sala sono presenti tre installazioni: una sorta di arena dove due oggetti simili a lucidatrici ricoperte di stracci si battono ossessivamente, scontrandosi l’una contro l’altra in una lotta interminabile e, si direbbe paradossalmente, ”sorda”. Una chitarra elettrica esegue un moto orizzontale e perpetuo, avvicinandosi e allontanandosi da un amplificatore e producendo così un effetto larsen. Infine c’è una specie di caminetto, o pozzo, su cui è cucita un’enorme testa di gatto fatta di stoffa grigia. Dalle profondità
In ognuno di questi lavori i suoni generano vere e proprie situazioni emotive: indicano insieme la spazialità cui l’opera fa riferimento e il contesto temporale in cui essa s’inscrive. Il suono è spesso ripetuto, spezzato forse per coglierne l’amplificazione interiore e personale, il modo in cui il esso è o può essere fenomenologicamente percepito dal singolo individuo.
Lungi dal presentarsi come pura e semplice sperimentazione, qui il suono non è musica, ma parola arcaica, trascrizione del pensiero, scrittura nel senso derridiano del termine. E’ l’inevitabile infrangersi della parola parlata, il frantumarsi della phoné che vorrebbe darsi come presenza attuale e assoluta che dice tutto e subito, per lasciare lo spazio all’infinita ricerca di un principio mai conosciuto: un’origine nascosta e misteriosa dell’essere, ancora sempre da venire.
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