La fama dell’artista tormentato e maledetto lo precedeva senza che lui facesse nulla per sottrarsene. Anzi, alimentandola sempre più col mito del bello e dannato, tutto sesso, droga e rock’n’roll. Fagocitando esperienze di vita e arte con la stessa facilità, e velocità, con la quale dipingeva quasi venti quadri al giorno. Nel bene e nel male, anche se sarebbe troppo semplicistico ridurre tutto a una pura questione di magnetismo del personaggio, rischiando di mettere in secondo piano le sue indubbie doti di pittore: questo è stato
Mario Schifano (Homs, 1934 – Roma, 1998).
Frontman della Scuola di Piazza del Popolo, formata da un gruppo di giovani artisti romani -tra cui
Tano Festa e
Franco Angeli– abituati a frequentare fin dai primissimi anni ’60 il linguaggio pop, Schifano viene ora celebrato da In Arco, nell’anno del decennale dalla morte, con la prima di una serie di personali incentrate su un decennio in particolare. Si comincia con gli anni ’80, a cui seguirà un secondo nucleo di opere risalenti agli anni ’60 e ’70, allestito non prima del 2009, per consentire alla galleria torinese di reperire e presentare lavori di alta qualità e sicura autenticità e provenienza.
Dunque, l’epoca della cosiddetta fine delle ideologie si mostra in tutto il suo fisiologico e salutare disimpegno, subentrato ai cupi “anni di piombo”, nella ventina di dipinti estrapolata dai suoi cicli tematici di quel periodo. Che solitamente iniziavano sulla spinta di un’esperienza personale, come può esserlo la nascita del figlio Marco per la serie
Infantile (1985), oppure su stimolo di determinate situazioni già diventate tendenza in
Cosmesi (1981).
Ma soprattutto da idee nate a partire da reperti di scoop o spot pubblicitari, poi sviluppate nella serie
Architetture (1982), dove l’universo tecnologico e massmediatico prendeva immediatamente corpo sulla tela. Riuscendo nel difficile compito di mantenere inalterati sia la carica iniziale che il senso di febbrile intuizione del momento, anche quando la vuota ripetizione del gesto seriale avrebbe esaurito lo spirito di chiunque.
Perlomeno è questa l’impressione che se ne riceve osservando le sue grandi pitture dai titoli naturalistici come
Cascata (1988),
Vulcano (1986),
Isolata (1996), tanto da far pensare -parafrasando Quasimodo- “ed è subito colore”. Quello composto da una materia vitalistica e gestuale, densa e accattivante, intima espressione di energia e di una ritrovata fiducia nel mezzo pittorico, dopo la crisi di fine anni ’70, quando Schifano voleva abbandonare tele e pennelli per dedicarsi esclusivamente al cinema.
Ma, intercettando lo spirito del tempo, non poté fare a meno di dipingere una serie di quadri esteticamente godibili, tali da inserirsi bene in quel clima di “ritorno all’ordine”, di “nuova figurazione”, di “neoespressionismo”, nel quale la rappresentazione cominciava a giocare di nuovo un ruolo importante in Europa (Germania e Italia) e negli Stati Uniti. Tanto da spingere Achille Bonito Oliva a definirlo un “
transavanguardista tra virgolette”.