Per Baudelaire, “
l’industria fotografica è il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per portare a piena esecuzione i loro studi”. La fotografia è “
un’infatuazione collettiva”, una sorta di vendetta dei “
cattivi” pittori verso l’opera d’arte. Nell’estetica della Pop Art, la fotografia è il mezzo per esprimere la serialità. La riproduzione diventa l’opera in sé e l’utilizzo di uno scatto di “seconda mano” è sovrapposto a quello d’autore.
L’immagine ha segnato un periodo di cesura con il passato, divenendo l’espressione per eccellenza, in grado d’indagare la realtà e interpretarla attraverso schemi concettuali sempre più complessi.
Natale Zoppis (Verbania, 1952) opera un’analisi articolata, utilizzando la fotografia congiuntamente a linguaggi diversi, riuscendo a metterli in dialogo. In molti casi, lo scatto è realizzato con la Polaroid, strumento che esula dalla ricercatezza estetica e che incarna il ruolo della serialità, imprimendo al contempo gli elementi del reale come schegge di vita e memoria.
L’artista compie una profonda indagine sull’uomo, che si evince in particolar modo dalla poetica del corpo, capace di avere in alcuni casi la stessa valenza della Body Art.
La bidimensionalità dell’immagine diviene performance e opera. L’installazione
False Muse ripropone una rappresentazione realizzata nel castello di Klenovà, in cui Zoppis ha fotografato i piedi della sua gallerista. Dodici di queste immagini, numero che rievoca quello degli apostoli, sono esposte insieme a un catino d’acqua posto su un asciugatoio.
In un momento successivo alle pose, nella chiesa del medesimo castello, l’autore ha lavato i piedi della gallerista, facendo documentare la sequenza. Questo atto emblematico, pur non essendo più riproponibile nell’installazione, rimane come presenza e ricordo, riassumendo il gesto di Cristo. Una metafora che sottende al capovolgimento dei ruoli, non soltanto tra creatore e creatura, ma anche fra l’artista e il gallerista, il critico, il curatore.
Nella sua indagine,
Paolo Minioni (Verbania, 1965) opera con coerenza. I vasi vuoti si rifanno al modello degli
Still Life, in cui emerge la caducità della vita e il mutare del tempo. Tuttavia, queste
Nature morte sono da intendersi nell’accezione del termine inglese, che significa appunto ‘ancora in vita’.
L’installazione alla Fusion Art Gallery è emblematica: vasi vuoti, apparentemente anonimi e mai uguali l’uno all’altro, sono contrapposti a immagini di grandi dimensioni che rappresentano cumuli di terra di scavo. Il contenitore e il contenuto acquisiscono materia nello spazio, completandosi e contrapponendosi al tempo stesso. Il tutto è evidenziato dalla liricità del bianco e nero.
Il vaso, in sé, racchiude il segreto di Pandora, e rimanda al mistero svelato. Che, nonostante la liberazione dei mali, contiene sul fondo la speranza invisibile ed eterea.