C’è chi vuole difendersi da tutti gli uomini, impazzando contro la loro follia. Per svelarne dapprima l’origine e mostrarne in seguito il giusto arrivo. La propria interpretazione manifesta. C’è chi, solo per questo motivo, ascolta e vede e ha paura, paura di agire per gli stessi motivi o per qualsiasi motivo banale, paura di credere agli stessi fantasmi o a qualsiasi fantasma normale, paura di lasciarsi trasportare dalle stesse ebbrezze o da qualsiasi altra ebbrezza fulminea. Paura, insomma, di delirare in comune e di respirare in un ammasso d’estasi. Solo nell’arte, come all’interno di un mondo bislacco dell’apriori, separandosi dall’esser umano, si viene privati di un errore, depauperati dell’illusione di un’intera vita. Quella che si tiene ingiustificata fino alla fine. Allora, le parole febbrili, quelle di chi reagisce creando e creando, instancabilmente, se lette in parallelo, rivelano l’esistenza di qualcuno. Qualcuno prigioniero di un’evidenza estetica assoluta, poetica, che risulta irrisoria per chi ne partecipa a distanza. Quell’evidenza al contatto con la quale ci si spoglia immediatamente della propria. Dunque, a chi dare la propria adesione senza avere la certezza di poter finalmente sbagliare
sin verguenza? In questa nuova personale torinese,
Giovanni Albanese (Bari, 1955) prova a dare una risposta. Sbaragliando, come suo solito, l’occhio rigido dell’indisponenza.
I lavori, ben distribuiti all’interno degli spazi, occupano il vuoto non come oggetti ma come simulacri, filtrando l’aria senza fenderla, a mo’ di riproduzioni. Chi osserva vede in trasparenza. Fuochi senza fiamme, una forma di pianoforte, tante formine di stelle, nuovi messia dentro vecchi messia. Impalcature che emulano un mondo finto.
Fake is on fire. Quello di Albanese è un ecosistema del falso. Un micro-universo illuminato da fiammelle elettriche che trasformano tutto in un riparo sicuro, protetto. Senza utilità, senza fine, senza ideali, senza idoli, senza icone e, per finire, senza pericolo, anche perché totalmente ignifugo. Un mondo dunque gelatinoso e acre, escluso dai suoni veri e dalle voci umane che corrispondono. Un luogo fané, preannunciato solo da un vecchio jingle natalizio, biascicato attraverso bocche incorniciate da barbe di plastica.
Questa mostra è solo uno dei tanti punti di vista che l’artista pugliese riesce a prefigurare. Proprio così come lo si trova, senza pretese dottrinali. Un posto che trasforma la galleria in una feritoia, una fessura dove restare tutto un giorno a pensare, sapendo solo che, il giorno successivo e quello dopo ancora, ci si potrebbe trovare nuovamente lì, fissi a guardare oltre. Albanese ha il dono di creare, attraverso i propri lavori, terre dimenticate, bordi sfocati ai lati di quelle fessure che tagliano la visione di netto, sezionandola e imprigionandola. Immaginando, nel fiele dell’ironia, il gusto confuso delle paure ultime. Quelle che riscattano il terrore più grande. Il senso improvviso dell’inadeguatezza.
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almeno si diverte...
Un piccolo aggiornamento al sito della galleria no eh??
Il pianoforte è SPETTACOLARE, il messaggio un po' contorto, bella recensione.
ho fatto un giro sulla rete per vedere cosa fa questo Albanese, dopo aver letto di un suo film in cui parla di "falsari sfigati e mercanti disonesti nell'arte contemporanea".. mi sono imbattuto così in questa recensione, dove spicca la riproduzione di uno smaccato, volgarissimo plagio: il pianoforte a coda tempestato di piccole luci l'aveva fatto Walter Marchetti negli anni '90!
ma certo, Walter Marchetti (musicista e performer di area Fluxus, assai anziano, perché nato nel 1931, ma comunque vivo e vegeto) è uno sconosciuto ai più, niente di più facile, per un cialtrone come questo Albanese dimostra di essere, farne una copia, appena dissimulata.. accidenti che faccia tosta!