Sarà perché nei giorni successivi all’inaugurazione la protesta valsusina ha reso quasi impossibile raggiungere il forte di Exilles, imponente fortificazione che ospita un museo dedicato alle truppe alpine e la cui storia risale al 1140. Sarà per l’inattesa nevicata, che ha reso ancor più lunare il paesaggio. Non sarà per il tema della mostra, ossia cinque artisti che interpretano i valori rappresentati dai cerchi olimpici. Insomma, una mostra da vedere senza clamorose aspettative, ma che merita una scampagnata in montagna.
Fra la prima e la seconda tenaglia del Forte è installato Monologue sites (morphing cloud) di Loris Cecchini (che ha sostituito Maja Bajevic). Un lampione inopinatamente urbano in quel contesto sorprende, non c’è che dire. Se poi diviene una scala a chiocciola, ma solo nella metà superiore; se in cima è saldata una seggiolina tipo arbitro di tennis; e soprattutto se la parte orizzontale, luce compresa, è contenuta in un enorme bozzolo multibitorzoluto, trasparente e plasticoso; ebbene l’effetto è assicurato. Meditabondi ci si avvia allora verso la piazza d’armi, superando la paurosa sala del pozzo (ben 70 metri di profondità scavata nella roccia!). Al centro si staglia The ghost in the machine di Jimmie Durham. Ossia un’Atena marmorea avvinghiata –suo malgrado, visto che li unisce una robusta fune– ad un vecchio frigorifero. La dea della guerra, ma anche della tecnica, costretta a portare il fardello di una tecnologia in esponenziale crisi di obsolescenza oppure, al contrario, uno sviluppo che si trova obbligato a trascinare un’eredità sempre più ingombrante?
In due delle sale che circondano la spianata sono presenti le opere di Alberto Garutti e Chen Zhen. Il primo, con Opera dedicata alle persone che si incontrano, ripropone la soluzione degli “oggetti” che, dall’apparenza banale, grazie a una verniciatura speciale divengono fosforescenti in assenza di luce (in pratica, l’intervento attuato al Pac nella mostra dal titolo più assurdo del 2005, Spazi Atti). Che il cerchio olimpico sia quello rosso, simbolo del dialogo preagonistico, va da sé. Quanto alla resa estetica di qualche tavolo con le sedie tutt’attorno, è un altro discorso. Dall’altro lato del piazzale, Purification room. Un tantino inquietante nell’uso del tempo presente sulla didascalia che l’accompagna, visto che l’artista è purtroppo deceduto. Ci pensa la moglie Xu Min a perpetuarne la notorietà e la poetica, con lavori che causano qualche questione attributiva per un ipotetico collezionista. Di fatto, l’installazione consiste in un coacervo di oggetti d’archeologia tecnoindustriale ricoperti d’argilla, il medium purificatore del titolo che, in un’ottica di medicina orientale tradizionale, permette di superare il decesso funzionale dell’oggetto in direzioni altre e insospettabili. Proseguendo verso la sezione museale del Forte, passando il ponte sulla seconda corte, ci si imbatte nell’opera di Lucy Orta, Ornaments of suffering.
Una miriade di guanti multicromatici ai quali sono appesi dei campanelli che il vento fa tintinnare. L’effetto visivo è forse stridente con le tonalità dell’ambiente, mentre il risultato sonoro è indubbiamente affascinante.
Nel complesso, una rassegna di un certo interesse, che può avere altresì il pregio di avvicinare di soppiatto all’arte contemporanea i visitatori che della mostra non hanno avuto notizia preventiva. E, come abbiamo detto, il luogo contribuisce alla riuscita scenografica delle installazioni.
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