Negli ultimi anni la ricerca artistica di Elisa Sighicelli (Torino, 1968) si è incentrata, in maniera sempre più approfondita, sulle potenzialità espressive connesse alle caratteristiche fisiche della luce. Nei suoi lightbox, e in particolar modo nei video, l’accento è posto sull’elemento sensoriale, attraverso cui ogni contenuto e atto del conoscere sono ricondotti al sentire. E oggetto precipuo del sentire sighicelliano è la contrapposizione tra luce e tenebre. Questi sono gli strumenti attraverso cui esplorare e dilatare lo spazio. Questa dicotomia, così radicata nel pensiero artistico della Sighicelli, si rispecchia finanche nell’allestimento degli spazi espositivi della Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Torino, sede di questa personale. Qui si alternano ambienti luminosi a zone in cui il buio fitto è appena rischiarato dai colori pungenti dei video.
Soprattutto in Nocturne (Red), e Nocturne (Trajectories), video montati in loop, la densa oscurità in cui è immersa la sala conferisce alle opere un carattere ambientale, in cui l’effetto prodotto è simile a quello raggiunto attraverso la tecnica dell’environment (tale procedimento costituisce quasi una cifra identificativa delle opere di Bill Viola, capace di trasformare il luogo della proiezione in un santuario per la purificazione dei presenti). Tuttavia nel lavoro della Sighicelli esso determina un metafisico effetto straniante, dovuto al ritmo placido e ossessivo inscenato dalle traiettorie luminose di piccole barche che si incrociano, scompaiono e riappaiono nel buio e vuoto spazio del Chao Praya.
La luce artificiale dei neon posti in alcuni punti significativi delle scatole luminose sovverte la bidimensionalità propria della fotografia, che acquista un’inedita e sorprendente profondità spaziale. In Parlour, la realtà quotidiana, costituita dall’interno di una camera d’albergo con i suoi arredi, è trasposta in chiave poetica. Attraverso l’obiettivo fotografico, posto molto al di sotto dell’altezza degli occhi, l’artista fornisce un’idea parziale dell’ambiente che la circonda, creando immagini misteriose in cui la luce, con i suoi bagliori e i suoi artifici diviene la protagonista assoluta di un sommesso soliloquio nostalgico. Gli oggetti perdono il loro valore autoreferenziale per acquisirne uno formale e compositivo, regolato da un equilibrio ineccepibile che trova nella sezione aurea di Iceland: Blue Bed il suo momento di massima espressione.
L’elemento malinconico si ritrova acuito in Horizontal Blank, in cui il flusso di energia elettromagnetica fa si che gli oggetti reali trascendano la loro pura fisicità per entrare nel dominio del metafisico, dell’impalpabile e dell’inafferrabile, dove la presenza umana è attesa e sottintesa, ma tuttavia esclusa.
elvira d’angelo
mostra visitata il 24 marzo 2007
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Questo mi sembra un'ottimo esempio di lavoro standard assuefatto alle logiche clichè dell'arte contemporanea. Lo standard è facile da definire, quello che conta diventano le relazioni pubbliche e private che sostengono il lavoro e ne permettono un focus.
Tutto può essere piacevole, ma francamente non mi sembra giusto rassegnarsi a questa forma di burocrazia creativa.