Nel suo saggio del ‘29, Virginia Woolf ha descritto in maniera critica e al contempo ironica le difficoltà socio-culturali che ogni donna con velleità artistiche incontra da sempre. Difficoltà insormontabili, a meno che non abbia la fortuna di possedere
Una stanza tutta per sé, una rendita che le permetta di essere liberamente creativa.
Di tutto ciò e della questione femminile in generale non v’è traccia nella collettiva del Castello. Che è solo un pretesto per offrire una chiave di lettura alle opere della collezione permanente, tra “classici” dell’Arte Povera, nuovi acquisti -come la videoinstallazione di
Marijke van Warmerdam-, inediti finora mai esposti del concettuale
Jan Dibbets, lavori site specific di Ackermann e proposte di futura acquisizione, come l’installazione sonora di
Francesco Vezzoli.
Il tema unificante è la solitudine creativa, a cui il libro di Woolf implicitamente allude. “
Si tratta di una solitudine duplice”, dichiara la curatrice Marcella Beccaria per spiegare il senso della mostra, nata dallo studio delle opere ma soprattutto dalla frequentazione con gli artisti, “
perché contraddistingue sia il momento della creazione artistica che quello della fruizione”. Quest’ultima è la cartina di tornasole per misurare la capacità dell’artista di coinvolgere il visitatore in un dialogo a tu per tu, intimo e autentico. Un dialogo complessivamente riuscito nella scelta vincente, seppur obbligata dal riferimento letterario a cui si ispira, di dedicare ogni stanza del castello juvarriano alla produzione del singolo, nel tentativo di rappresentarne le tappe salienti in un microcosmo allestitivo. Obbligando così alla dovuta concentrazione intellettuale, tipica da “sala monografica”, contro la dispersione da sovraffollamento di personalità tanto diverse.
Il percorso espositivo si apre con una microantologica di
Giulio Paolini. Nell’esemplare installazione
Stanza 18 (Il momento della verità) (1964-2008), allestita sotto la volta in mattoni del secondo piano, Paolini raduna le undici opere presenti in collezione -dalla stampa fotografica su tela del 1965 (
1/25) ai leggii del 1970-71 di
Apoteosi di Omero– sotto un unico punto di vista: il suo. Reso attraverso un collage su carta, appositamente pensato per l’occasione, dal quale spiare il suo ipotetico studio.
L’idea dello spazio fisico della creazione, inteso più come spazio mentale, ritorna nella stanza completamente dipinta di giallo di
Massimo Bartolini, nella quale entrare in rigorosa solitudine. Qui le comuni coordinate spaziali si annullano, la vista si annebbia e l’intuizione diventa condizione necessaria per orientarsi. L’armonia del silenzio evocata dal violino di cera di
Marisa Merz, conservato in una vasca di piombo a riprodurre l’immagine di una fontana, si spezza nell’ascoltare la recitazione ricca di pathos di Milva che risuona nell’installazione di
Francesco Vezzoli. Invitata a declamare pochi versi -“
Vattene dalla mia mente! Vattene da questa stanza!”- in omaggio a
Bruce Nauman, l’attrice-cantante si riduce a pura voce del pensiero dell’artista.
Si continua con
Franz Ackermann che, chiamato a relazionarsi con i suoi grandi oli labirintici in collezione da alcuni anni, ne prosegue la ricerca spaziale anche in senso tridimensionale. Per concludersi nel mezzanino della Manica Lunga con un’opera di
Olafur Eliasson, presentata già nove anni fa nell’ambito della programmazione della “Sala Progetto”, utilizzata come spunto per l’installazione del 2004 alla Turbine Hall della Tate Modern -ma qui in versione molto modesta- e ora parte del Castello.
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ma BASTA!!!!!! sempre i soliti! ma non c'è nulla di nuovo sotto il sole? certo, è che è tutta una presa per il c...