Condividono lo stesso atelier in quel di Vicenza, lo Studio 1280 ricavato all’interno dell’ex convento di San Francesco. Quasi coetanei, entrambi si diplomano all’Accademia di Venezia. Spesso collaborano: si veda la prolifica interazione tra disegno e parole, giocata su incanti e incantesimi evanescenti, proposta nel 2006 nell’ambito della mostra
De Figura presso L’Officina Arte Contemporanea vicentina. Terminano qui, tuttavia, i punti in comune tra i due artisti presentati da Weber & Weber, ognuno avente un approccio all’arte e una cifra stilistica ben marcati, diametralmente opposti a quelli dell’altro.
Noto per le sue figure umane nebulose, irriconoscibili,
Bruno Lucca (Nove, Vicenza, 1961; vive a Vicenza) presenta un gruppo di lavori omogenei dedicati all’impalpabile e tenue raffigurazione di fiori (
Serre, 2008). Avvalendosi della consueta, seppur regolarmente rinnovata tecnica della stesura di olio di lino vergine su tessuti colorati, tinti di amaranto, blu, grigio fosco, realizza – lentamente e con estrema premura –
sagome di tulipani o calle con tratto leggero, sicuro e consapevole, di pastello bianco. Il peculiare
unguento, una volta assorbito dalla trama e cristallizzatosi, trasforma il supporto pittorico in una superficie iridescente, che riflette la luce in maniera mutevole e seduttiva, in un certo qual modo modificandone organicamente la fibra.
Si dischiudono, così, deliziose corolle luminescenti, laddove l’autore sceglie di far risaltare talune porzioni di petali e foglie semplicemente sottraendosi dal dipingerle, o rendendo l’ingrediente cromatico più rado. Bagliori intensi e calore vibrante sono profusi nello spazio limitrofo, a beneficio dello spettatore, partendo proprio dalle campiture più rarefatte. Su uno sfondo bordeaux, ad esempio, emergono due iris somiglianti a salpingi (
Tube di Falloppio) accese, come un’abat-jour metaforica avvolta da silente atmosfera, discreta, pacata, serena.
Dalla semplicità disarmante delle tele di Lucca ci si avvicenda, poi, verso la pregnante matericità, varietà di soggetti e complessità delle recenti composizioni di
Daniele Monarca (Vicenza, 1966). Le tecniche utilizzate sono molteplici, ma le opere, tutte dello stesso formato, sono divise rigorosamente in dieci serie, composte a loro volta dal medesimo numero di artefatti.
In mostra, soltanto una selezione dei più significativi pezzi appartenenti a tre dei differenti cicli. Carte spillate, ricami su stracci (
Efflorescenza, 2004-05), spaghi multicolori che compiono evoluzioni su cartoncino, nuclei lattescenti sospesi, circonfusi da un’aura chiara, oli e cementite su faesite (
Epigenesi, 2007).
Per quanto palesemente dissimili, i lavori di Monarca sono contraddistinti dallo stesso stimolo concettuale, ostinato, che prevede il contrasto e il confronto tra due differenti elementi, al fine di creare una sorta di processo d’urto esaminabile durante e dopo l’iter procedurale, come fosse sollecitato in laboratorio, nell’ambito di una sperimentazione
in vitro.