Nel giugno 2009 la Fondazione
Merz è stata lo scenario di un evento alquanto significativo, in occasione
della chiusura della mostra di
Wolfgang Laib: l’artista tedesco invitò 45 bramini di etnia tamil a officiare il
rito del fuoco, per celebrare il benessere del mondo e di tutti gli esseri
viventi.
Gianluca e Massimiliano De
Serio (Torino, 1978)
hanno filmato le inconsuete immagini del
sacrificio e del rituale cercando le prospettive più interessanti, e hanno
inoltre documentato l’incontro fra i bramini e decine di profughi tamil,
evidenziando la contrapposizione fra la ricerca della pace e del perdono e
l’esperienza drammatica vissuta da coloro che sono stati costretti a fuggire
dalla guerra civile in Sri Lanka. In quell’isola, il 18% della popolazione è
proprio di etnia tamil e di religione indù e vive in maggioranza nella parte
settentrionale e orientale del paese.
Una minoranza che, attraverso
il movimento delle Tigri per la Liberazione della Nazione Tamil, ha reagito
agli scontri e ai soprusi sempre più violenti che, dal 1983, si sono
concretizzati in una guerra armata contro la maggioranza governativa cingalese
per l’indipendenza del nord dell’isola. Un conflitto
sanguinoso che ha causato oltre 70mila morti e 800mila profughi e che ha
coinvolto migliaia di bambini, sia come vittime che come carnefici.
I De Serio si sono concentrati
su questo simbolo delle guerre dimenticate, trascurato dalla stampa
internazionale e dalle iniziative dell’Onu, aprendo la mostra con una serie di
video che raccolgono la testimonianza di cinque giovani di origine tamil. Sono
le
Public Prayers, racconti in forma di
preghiera di quello che è stato il vissuto di questi giovani ripresi di
profilo, distanti dalla telecamera, in contesti che stridono con le parole
pronunciate sommessamente. Sono ricordi della fuga da bambini, del terrore
della violenza e dell’incertezza pronunciati in mezzo alla folla di via
Garibaldi, indifferente e distratta. O, ancora più paradossale, si ascoltano
frasi di autentica tragedia in mezzo ai passanti felici e svagati di un luna
park, o nella penombra di un locale. Alla disperazione si alterna sempre la
richiesta, la preghiera appunto, di poter tornare nel proprio paese, una volta
ritrovata la pace.
L’impressione è che non sia una
mostra sulla guerra, ma sul desiderio di tregua: davanti alla sede delle
Nazioni Unite una ragazza si interroga sulla natura della pace e chiede “solo”
l’assenza di conflitti sul pianeta. Perché la guerra non è la normalità. Ma i
tamil non possono rientrare in patria, le famiglie sono divise, seviziate e
indagate al minimo sospetto.
Si procede in questa Via Crucis
di video fino alle diapositive del paese devastato dell’opera
Seam: povertà e distruzione contrapposte all’operosità di
un operaio tamil che lavora in una fabbrica del biellese, a esaltare la ricerca
della quotidianità, di un futuro.
Al piano interrato è allestita
un’installazione di tre grandi proiezioni in una sovrapposizione di voci e
suoni “faticosa” da assorbire. Si avverte una sensazione di rifiuto a
soffermarsi sulle riprese panoramiche centrali dei rituali, litanie ossessive
accostate all’ingrandimento dei tratti del viso di una giovane donna induista e
di un bramino. Da un lato si ascoltano i concetti religiosi della
trasmigrazione dell’anima, dall’altro il dolore di una famiglia spezzata. Il
tutto osservando la “miseria” ingrandita di tratti umani che tali non sembrano:
sono colline devastate.