È difficile, complesso direbbe lui, scrivere di
Pino Mantovani (Bagnolo Mella, Brescia, 1943). Critico intelligente e raffinato, nonché pittore colto dalla tecnica inappuntabile, Mantovani è anche e soprattutto un uomo che mostra nei suoi scritti e nella sua arte le contraddizioni dell’umano sentire. Quell’equivoco inesorabile che l’atto creativo implica: il vuoto fecondo di ciò che sta tra il fare e il fatto.
“Fin da ragazzo volevo fare il pittore”, ammette nell’
Autoritratto pubblicato in catalogo. Aveva già spiegato, tuttavia, che “fare il pittore” avrebbe poi significato per lui
“appartenere a quella categoria di pittori che pensano
la pittura”. Questo “pensare la pittura” lo spingerà a scriverne e a teorizzarne, a trovare i mezzi al di fuori di essa per riuscire a esprimerne l’essenza:
“A lungo mi sono chiesto se non fosse un compromesso quello di parlare di pittura oltre che di praticarla. Adesso sono convinto che da una parte mi è inevitabile per esser io fatto in un certo modo, dall’altra che ci sono oggettive giustificazioni: prima di tutte che il far parlare la pittura
serve al recupero della centralità dell’opera, a fronte dell’ottusità dell’autore e della petulanza indiscreta del lettore”.
Le figure di artista-critico hanno sempre avuto vita difficile nel proporsi al pubblico, proprio in nome della loro inclassificabile posizione. Difficile capire che la matrice di quel fare arte può essere la medesima per la pittura e la scrittura, oppure che la scrittura nasca come esigenza di comprendere intellettualmente la pittura anche per chi la realizza. Si ha bisogno d’etichettare, stringere in confini di mestiere al fine di proferire una valutazione unidirezionale. Ma per alcuni non è così. Per Mantovani, fare arte è
“fare dell’opera un universo”; esperienza, memoria, concetto e scrittura sono strumenti per liberare la materia dal caos e comporla in opera universale. Sentire e comprendere come un’unica originaria unità.
Questa serie di elementi, la memoria e il concetto soprattutto, appaiono nei dipinti di Mantovani, benché paradossalmente ciò che lo spettatore vede non sia altro che una pittura-pittura, una pittura pura. Nessun uso di materiali diversi, nessun escamotage che trasformi il segno in una calligrafia codificata. Mantovani utilizza i colori come un frescante rinascimentale: stesure piatte da cui la trama della tela rimane visibile, come sensibilizzata dal colore. Materie composte manualmente in atelier, sfondi a più strati che tradiscono la loro bidimensionalità nel momento in cui si fanno radi. Figure disegnate da contorni luminosi perché sfocati, figure che occupano semplicemente lo spazio divenendone l’emanazione implicita.
Se la materia è dunque materia pura, i soggetti non potevano che divenir sostanza per il pensiero. Cosa di meglio, quindi, delle figure mitologiche, del ritratto e dell’autoritratto per esprimere la densità e la vacuità di ciò che abita il pensiero della pittura? All’origine mito e parola erano sinonimi, poi la parola divenne
logos e il mito rimase in un’accezione che rinvia alla forma, alla configurazione. Dipingere un Narciso che si specchia, o il proprio viso, può allora essere parte di una stessa necessità: confrontarsi con una forma che è la propria immagine esterna. Così, se intravediamo forme conosciute nella sua arte (riferimenti al passato) non le riconosciamo come citazioni, ma come invenzioni puntuali della memoria. Punti di un fare continuo che, dal passato, giungono nuovi al presente.