L’allestimento è così leggero da far dire alla curatrice Maria Teresa Roberto, in apertura della mostra: “
Si ha la sensazione di entrare in una galleria privata che si materializza sotto i nostri occhi”. E di trovarsi di fronte non a opere datate marzo 1960, ma a qualcosa di ben più attuale. Perché “
i quadri sembrano appena fatti, tanto si è conservata bene la materia”. È un’allusione alle poche volte -cinque in tutto- che l’intera serie de
La Gibigianna di
Pinot Gallizio (Alba, 1902-1964) è stata esposta, senza subire nessun smembramento dei suoi otto dipinti di grande formato. Dalla primissima volta alla torinese Galleria Notizie di Luciano Pistoi, nel giugno di quello stesso anno, passando dalla retrospettiva che la Gam di Torino ha dedicato all’artista nel 1974, fino alle personali nella Galleria di Otto van de Loo a Monaco di Baviera, proprietario delle tele fino alla primavera del 2007. Quando entra in gioco la Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT, che riesce a ottenerne la concessione a donare l’importante ciclo pittorico alla Galleria civica toriense, per incrementarne la ricca collezione di pezzi italiani e stranieri del secondo dopoguerra.
Qui la mera cronaca si arricchisce di un elemento di stupore, ben documentato nella sala accanto a quella dove sono ubicate le opere in questione. Si tratta delle fotografie delle analisi stratigrafiche, eseguite su microcampionature delle stesse, proprio in occasione di questa recente acquisizione. Uno studio che ha rivelato dieci strati di diverse tecniche di pittura e una medesima sequenza esecutiva, riscontrabile in tutti i dipinti esaminati, caratterizzata da una prima stesura e da un intervento pittorico successivo.
Dunque, una conferma scientifica di quanto già dimostrato dall’indagine iconografica di Maria Teresa Roberto, che ha scoperto, di fatto, l’origine della materia de
La Gibigianna: la tela di supporto dei dipinti è il pavimento della
Caverna dell’Antimateria (una pittura che diventa ambiente), realizzata da Gallizio nel 1958-59 per l’omonima esposizione alla Galleria Drouin di Parigi. “
Sono rotoli di pittura che riutilizza, li taglia, li appende nel suo studio ad Alba e crea queste figurazioni dal forte gesto pittorico -chiarisce Roberto-
. È un ciclo di dipinti che racchiude una storia di trasformazione, una storia della pittura che non si conclude mai, ma che addirittura ne comincia un’altra sulla base della pittura industriale”.
Già, la famosa pittura industriale inventata dal Gallizio chimico e farmacista, fatta di lunghe pezze di tela poi arrotolate, su cui dipingere in estrema libertà, con colore spruzzato e gettato violentemente, esposte all’azione di pioggia, sole e vento, senza interrompere mai l’intensità del processo creativo in atto. Certamente con un occhio alla pittura d’azione di
Pollock e alla poetica
informel in generale, dato che queste esperienze nel 1959 erano direttamente sperimentabili a Torino, grazie alla presenza di Michel Tapié e alle iniziative espositive di Luciano Pistoi (sua la mostra di
Fautrier , immediatamente precedente a quella di Gallizio).
Dopo tanto furore creativo, basta pochissimo all’artista di Alba per interiorizzare il tutto attraverso la costruzione di una storia di tradimento e successivo pentimento –
La triste e lagrimosa istoria del re di pipe in cinque quadri e due tele (sottotitolo de
La Gibigianna)- reso in forma di misurata composizione geometrica. Neanche troppo moderata, se si tiene conto del colore a olio spremuto direttamente dal tubetto per contornare le vivacissime figure della narrazione. Ma chi è poi questa Gibigianna? In pratica, la moglie tradita. In astratto, un’illusione. Perché è un termine usato per alludere a quel riflesso di luce abbagliante che colpisce il nostro sguardo quando intercettiamo uno specchio centrato dal sole. In senso ancor più lato, il prestesto per una riflessione sulla pittura.