È impossibile fermarsi a una prima lettura dell’opera di
Daniel Spoerri (Galati, 1938). Il suo è, infatti, un mondo poliedrico, il cui fondamento è il principio fisico dell’attrazione e della repulsione, una realtà costituita da una miriade di frammenti, di elementi prelevati da un contesto banale e ricontestualizzati, senza un apparente ordine razionale, assecondando ipotesi stocastiche, che rendono l’azzardo assoluto e incontrastato padrone del campo. Risulta dunque inutile qualsiasi tentativo di codificare il lavoro, di catalogarlo sulla base di regole. Spoerri crea
Wunderkammer al contrario, ribaltando qualsiasi logica, vanificando la prevedibilità: nel momento in cui pensiamo di aver trovato la chiave che consente di entrare nel suo mondo e di decifrarlo in modo lineare, ci imbattiamo inevitabilmente in una trappola visiva.
Esponente del
Nouveau Réalisme, interpreta l’arte alla luce del quotidiano, di cui si appropria attingendo senza mediazioni al caos che domina la vita: mensole, tavoli, bicchieri, cassetti, scatole, posacenere diventano oggetti d’arte in modo assolutamente naturale, caotici come nel fluire del quotidiano. Forchette, tazze, piatti sono incollati e appesi alle pareti, sculture dell’aleatorio, assemblaggi che fanno parte della
ronde della vita.
Si pensi alle
Collezioni, alle
Armature, ai
Musei sentimentali, ai
Corpi a pezzi. Ogni ciclo di lavori è un’articolazione di frammenti, innumerevoli microcosmi che costituiscono un eterogeneo, dinamico universo, nel quale tutto è a posto, ma niente è in ordine. Nulla è statico, cristallizzato: ogni dettaglio pulsa e muove la percezione in modo febbrile. Sono
Giochi di stupore, come titola la mostra, intrecci di mondi e linguaggi che generano interminabili catene di significati. Lo spirito ludico è la manifestazione della sottile ironia con la quale Spoerri osserva la realtà, impossessandosene, ma anche prendendo le distanze, così da ammantare la vita di un velo ineffabile.
Sulle pareti della sala d’ingresso sono disposti alcuni
Tableau piège; nelle altre sale
assemblaggi di piccolo formato si propongono allo spettatore come microcosmi stupefacenti, nei quali trovano spazio gli elementi più disparati: volti, gambe, mani, occhi, farfalle, chele di crostaceo, teschi, tappi di bottiglia, nastri. Ogni lavoro reca una data, rappresenta una memoria dell’artista. Ogni oggetto, trovato in un mercato delle pulci, è stato successivamente collazionato con altri, così da costituire un diario interiore nel quale le cose prendono il posto delle parole, in un percorso immaginifico.
Sembrano scaturire direttamente dall’
“intenzione fabbricativa” di vichiana memoria le sculture in bronzo, tra le quali campeggia la
Ragazza cefalopede col piede di elefante (2007): corpi in gabbie avviluppanti come trappole seducenti. Lo spettatore è posto a confronto con un carosello vorticoso, manifestazione dalla gioia di concertare con uno spartito invisibile, che attinge a piene mani alla magia dell’universo.